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mercoledì 30 marzo 2022

"Lo rifarei", l'amarcord emozionante di Ciccio Riccio. Un quarto di secolo di storia d'Italia vista e vissuta da un funzionario del Pci-Pds-Ds

E' un viaggio nella militanza e nella passione politica lungo un quarto di secolo quello che ci regala Francesco (Ciccio) Riccio col suo "Lo rifarei", edito da Strisciarossa con prefazione di Gianni Cuperlo, da qualche settimana in libreria. Il viaggio di un funzionario del Pci, Pds, Ds, di quei funzionari troppo spesso descritti come grigi burocrati, persone d'apparato sempre protette, paracadutate da un incarico all'altro, della serie sempre meglio che lavorare. Ciccio, classe 1949, nativo di Locri e calabrese a vita, trasferitosi neanche vent'enne a Bologna per studiare e laurearsi in medicina, ci racconta la sua "vita di partito da via Barberia a Botteghe Oscure" (sottotitolo del libro), una vita da militante prima e da dirigente poi. Semplice iscritto e segretario della sezione Fregnani di Bologna, responsabile scuola poi stampa e propaganda, poi capo ufficio stampa alla Federazione bolognese, responsabile nazionale delle feste de l'Unità, presidente della società Arca editrice del giornale, Tesoriere del Partitone. Ma non è un libro autobiografico il suo. E' un tuffo nella storia recente d'Italia, un amarcord dei passaggi più tragici ed esaltanti vissuti dai comunisti italiani dentro quella storia. Dalle vittorie degli anni Settanta (la grande avanzata del Pci, il divorzio, l'aborto) alla "vetrina rotta" del Settantasette bolognese, dal rapimento e dall'assassinio di Moro (e del Compromesso storico inviso ai russi e affondato dagli americani) alla tragica morte di Enrico Berlinguer, dalla caduta del Muro di Berlino alla Svolta di Occhetto e alla nascita del Pds, dalla "gioiosa macchina da guerra" appiedata dalla "discesa in campo" di Berlusconi alla clamorosa sconfitta alle comunali di Bologna del 1999, dall'epopea delle feste nazionali de l'Unità alla chiusura de l'Unità, da Tangentopoli alla vittoria dell'Ulivo di Prodi, dai Ds, Margherita e Asinello alla nascita con "amalgama mal riuscita" del Partito democratico a cui Ciccio non ha mai aderito. Il viaggio di un compagno che molte di quelle vicende le ha vissute in prima persona, spesso da protagonista, raccontato con grande passione ma anche con leggerezza e ironia, prima a puntate su Facebook poi raccolto e sistemato nel libro. Una narrazione di piacevolissima lettura dalla quale emergono episodi, aneddoti, storie, soprattutto le persone di quella straordinaria comunità con cui Ciccio ha lavorato, o che hanno lavorato con lui. Pescando nella sua memoria di elefante le ricorda minuziosamente, una per una, con nomi, caratteri, pensieri, battute, manie, umanità varie. L'umanità bellissima del compagno Francesco Neri, ad esempio, l'amministratore delle feste de l'Unità prima di Ciccio, che alle sette della sera faceva il giro degli stand, andava in direzione, diceva oggi incassiamo cento e alla conta erano novantanove o centouno. Quel Francesco Neri che non aveva mai chiesto niente, "perché non si chiede al partito, si dà", e aveva un solo desiderio che Ciccio gli esaudì: portare Massimo D'Alema, il segretario, a pranzo nella sua casa di campagna di Mirandola. Il racconto di quel pranzo vale da solo l'acquisto e la lettura del libro.

Ciccio Riccio con Zangheri, qualche annetto fa
 Ciccio entra nel Pci all'inizio degli anni Settanta, quando per entrarci, come ricorda Cuperlo nella sua bella prefazione, "non è che pagavi l'obolo e, oplà, eri bello reclutato". No, entrare nel Pci "significava bussare alla porta della sezione (se-zio-ne non circolo) con due compagni già conosciuti che ti introducevano (e garantivano per te) e chiedere l'iscrizione con tessera, diritti e doveri inclusi". Una roba che, chiosa Cuperlo, "se a quel tempo uno avesse detto ma perché non facciamo eleggere il segretario da tutti i cittadini, ecco ti avrebbero non proprio gentilmente accompagnato all'uscio". Fa vita da militante Ciccio, la sera in sezione a discutere dell'universo mondo e preparare iniziative, la domenica a diffondere l'Unità su e giù per le scale in via Fondazza "ad ascoltare i problemi e le lamentele dei cittadini e a consegnare alla vecchietta il giornale che rappresentava il suo unico contatto col mondo esterno". Da militante vive le tensioni del 1977, l'assassinio di Francesco Lorusso, il Pci per la prima volta contestato da sinistra (è nel servizio d'ordine che difende D'Alema dall'attacco degli autonomi alla festa della Fgci a Palazzo Re Enzo, dove "volarono botte da orbi"), i momenti drammatici del caso Moro e della morte di Berlinguer. Poi diventa funzionario e negli anni dirigente via via sempre più di primo piano del partito.

Di Bologna ci fa rivivere gli stucchi e soprattutto i fasti politici di palazzo Marescotti-Brazzetti, storica sede del Pci bolognese in via Barberia 4, e quelli giornalistici della redazione de l'Unità nel sottotetto con travi a vista restaurato da Pierluigi Cervellati, allora diretta dal compianto amico comune Rocco Di Blasi. Emergono da quelle pagine tutta la forza politica e organizzativa del Partitone emiliano, ma anche le lotte interne per la segreteria (Ugo Mazza insidiato da "fini e simpatici intellettuali" sia miglioristi che di sinistra, "tutti formati nella mitica sezione universitaria Jaime Pintor" (Carlo Monaco, Antonio La Forgia, Sergio Sabattini), la nomina di Mauro Zani "che tutti stimavano e che nel 1999 avrebbe potuto essere un ottimo sindaco di Bologna" se i Ds non avessero fatto harakiri. Tra gli aneddoti, le nozze di Ciccio celebrate da Walter Vitali, sindaco e dirigente politico "affetto da una sorta di moto perpetuo che lo portava durante alcune noiose riunioni del Comitato federale a spostarsi continuamente da una parte all'altra della sala, senza fissa dimora".

Poi la chiamata a Botteghe Oscure da parte di Walter Veltroni "capace in pochi minuti di presentarti un mondo a colori" e a cui non si può dire no anche se hai "Bologna nel cuore", anche se la città e la "FederazionePiùGrandeDell'Occidente, così, tutto attaccato, sono per te "come la placenta da cui è difficile staccarsi". Del palazzo simbolo del Pci, "col grande atrio di Giò Pomodoro", Ciccio ci descrive gli ambienti, l'atmosfera, l'organizzazione, "i bellissimi occhi della segretaria che chiamavo Oci Ciornie", i servizi e benefit a disposizione di chi aveva la fortuna di stare lì, il lavoro quotidiano a cominciare dalla preparazione della rassegna stampa "col taglia e incolla" e dalla distribuzione delle mazzette dei giornali "gratis per i funzionari eccetto l'Unità che ciascuno era tenuto a pagare", gli uffici dei massimi dirigenti del partito, il sesto piano più "in" che dava sul grande terrazzo con vista su Piazza Venezia "dove ti capitava di incontrare Nanni Loy e Ettore Scola e quando c'era un casino di compagne voleva dire che era arrivato Massimo Ghini, o il principe De Gregori". "Ogni piano, ogni stanza raccontava un pezzo della nostra storia, quella più intima e più gloriosa. Dall'ambulatorio al sesto piano, dove vissero in poca tollerata intimità Togliatti e Nilde Iotti, al balcone centrale dove Berlinguer rispondeva all'orgoglio dei militanti dopo le storiche vittorie del 1975-76 col suo sorriso dolce e indimenticabile". L'addio a Bottegone fu un trauma. "Quando lasciammo quel palazzo avevamo tutti il magone. Era il fortilizio di un passato che non torna".

Ciccio ci fa poi entrare dentro la pancia e la testa delle formidabili feste de l'Unità, dove la comunità dei comunisti italiani dava il meglio di sé. Quelle che andavano sul sicuro in Emilia-Romagna (Bologna, Modena, Reggio), quelle di Firenze e Genova, le prime in montagna, sulla neve. Macchine complesse, una organizzazione che doveva girare alla perfezione per coordinare migliaia di volontari, accogliere milioni di persone, realizzare la connessione sentimentale tra la politica del partito e il suo popolo, curare le relazioni e le iniziative politiche nazionali e internazionali, garantire buoni incassi per finanziare al meglio il partito "anche facendo le pulci alla grammatura del sale, come aveva insegnato il compagno Francesco Neri". Feste delicate soprattutto dopo l'Ottantanove "quando casca tutto" e bisogna gestire la svolta, il passaggio dal Pci al Pds. E qui si Ciccio ci porta dentro il congresso del 1990 a Bologna, al Palasport, con le mozioni Natta, Ingrao e Cossutta, l'ultimo vecchio simbolo, le ultime suonate dell'Internazionale e di Bandiera rossa, le lacrime di Occhetto, e dentro quello fondativo alla Fiera di Rimini nel 1991 "che mise la falce e il martello, in piccolo, ai piedi della Quercia" e si concluse con lo smacco della mancata rielezione di Occhetto. "L'80% che come me aveva aderito alla mozione del segretario era determinato e convinto, nessuno era felice", sintetizza, svelandoci poi un aneddoto sulla nascita della Quercia. "La storia del simbolo fu avvolta da totale mistero. Per un mese Bruno Magno, capo dei grafici, solitamente presente in ufficio all'alba, si dileguò. Arrivava di tanto in tanto e furtivamente si infilava nell'ufficio di Veltroni con una cartellina ben celata sotto la giacca... Ho il privilegio, con pochi, di avere ricevuto in dono da Bruno un acquerello del simbolo che conservo gelosamente. L'originale lo chiesi in prestito per la festa nazionale di Bologna di quell'anno. Bruno mi disse che non tornò mai indietro".

Arrivano Tangentopoli, il crollo della fiducia nei partiti, la stagione delle stragi di mafia, Falcone, Borsellino, l'elezione di Scalfaro alla Presidenza della Repubblica, il primo esecutivo di tecnocrati guidato da Ciampi, lo sdoganamento dei fascisti che apre la strada al ventennio berlusconiano, il monopolio televisivo Mediaset regalato al Cavaliere da Craxi, i referendum di Segni per l'abolizione del finanziamento pubblico ai partiti e l'introduzione del maggioritario. E' la morte dei partiti tradizionali, l'inizio della stagione dei partiti personali. Con il ricordo nostalgico del simbolo Pci "primo in alto a sinistra" e della corsa a presentare la lista. "A Bologna, davanti alla Corte d'Appello poco prima dell'apertura arrivava il compagno civetta, con una borsa che conteneva la finta lista. Tutta l'attenzione dei competitori cadeva su di lui. A quel punto il pacchetto di mischia apriva il varco attraverso il quale, con scatto da centometrista, si incuneava il compagno Farolfi con la busta vera".

Dopo le dimissioni di Occhetto va in scena la sfida D'Alema Veltroni. Ciccio è molto legato al leader maximo. "Dopo l'episodio di Palazzo Re Enzo nel 1977, rividi D'Alema per le politiche del 1979. La federazione di Bologna mi inviò in Calabria per la campagna elettorale. D'Alema, allora segretario della Fgci, venne a fare iniziative elettorali e si fermò in zona per tre giorni. Siccome ero l'unico a possedere un mezzo di trasporto, fui incaricato di accompagnarlo nel giro elettorale. Abile oratore, riscuoteva ovunque grande successo. Andammo in posti difficili, sempre accolti con entusiasmo dai compagni. Nei trasferimenti tra un comizio e l'altro parlammo a lungo e ci conoscemmo meglio. Nacque allora una stima e un'amicizia che durò nel tempo e permane tuttora". La Repubblica tifava Veltroni. Presentava D'Alema come il prepotente ritorno in campo dell'apparato del Pci, dei funzionari, dei quadri. Dio l'avesse salvato quel Pci. Purtroppo non c'era più. Con Veltroni ho sempre avuto un rapporto di amicizia, costruito negli anni di lavoro con lui al sesto piano di Botteghe Oscure. Un giorno, quando ormai era chiaro il dualismo, gli dissi: Spero che tra te e D'Alema non si giunga allo scontro, sai bene con chi mi schiererò. Capì perfettamente e nulla cambiò nei nostri rapporti".

Infine la nomina a tesoriere con lo stigma di dalemiano. "Ma non mi ci mandò D'Alema, mi scelse Zani, allora coordinatore della segreteria. Fui convocato al secondo piano, ultima stanza in fondo al corridoio, ufficio sobrio con mobili in vetro. Andò subito al sodo. Venivamo entrambi da Bologna. Era un dirigente stimato da tutti. Non era gratuitamente empatico. Ma se ti sorrideva trasmetteva fiducia. A Bologna in una bolsa riunione a un certo punto disse: compagni se non avete cose particolarmente originali da dire non è necessario intervenire. Un mito. Mi accomodai. Dire che ero a mio agio è troppo. Ti occuperai della tesoreria del partito - mi disse - e Amato Mattia de l'Unità". E' l'incarico più delicato per Ciccio. "Il tesoriere faceva parte di diritto della segreteria e doveva eleggerlo il congresso. Quindi un grande potere autonomo, non soggetto ad alcuno, neanche al segretario nazionale. C'era il partito che decideva la politica e le conseguenti iniziative e il tesoriere che decideva se e come finanziarle". Il debutto è all'insegna del "non c'è una lira". La fine del finanziamento pubblico e la crisi di fiducia nella politica hanno cambiato tutto. Le difficoltà economiche, l'editoria che è un buco nero, l'indebitamento monstre. "Quando presentai i numeri in segreteria mi concessi una battuta: con un debito pari al nostro la Montedison è fallita. Complessivamente qualche centinaio di miliardi di lire". Cominciano i tagli. I simboli da salvare sono l'Unità e Rinascita. In questo disastro c'è un aneddoto gustoso. "Un giorno D'Alema mi presentò a Vittorio Gassman come il debitiere del partito. Si doveva andare a pranzo, ero in imbarazzo. Ci pensò lui: non si preoccupi, pago io". L'amico Cuperlo arricchisce il ricordo. In realtà "andammo a pranzo in Piazza Campitelli con Gassman, D'Alema e Ettore Scola. Al debitiere, Gassman tese la mano dicendo quasi a scusarsi: io solo un risottino eh, non ho preso neanche il secondo".

Alle elezioni del 1996 nella grande arca dell'Ulivo bisogna trovare un posto in lista per la responsabile delle casalinghe "che aveva lasciato Berlusconi e aveva anche due cognomi. Chiamammo quasi tutti, ricevemmo cortesi dinieghi. Nessuno voleva rinunciare". Lo fece Ciccio. "Conclusa la notte delle liste Zani si avvicinò e mi disse: mi dispiace ma non c'era più un posto. E io: non l'ho mica chiesto. E lui di rimando: per questo mi dispiace". A tarda notte la vittoria dell'Ulivo si profilava già. "Scesi da D'Alema per fargli gli auguri di compleanno, aveva compiuto 47 anni. Si alzò, mi venne incontro intonando all'alba vincerò".

L'addio a via dei Taurini. Nel 1992 Ciccio è presidente di Arca, la società editrice de l'Unità. "Il guaio era che qualcuno allora pensò che Repubblica ci rappresentasse, quindi l'Unità diventava quasi residuale". Si adopera per fare entrare i privati nel capitale sociale, gli interlocutori sono Marchini e il Gruppo Angelucci. Non sarà sufficiente a salvare il quotidiano fondato da Antonio Gramsci. Aneddoto. "Si discusse anche della direzione del giornale. L'amministratore delegato Prario girava con una cartellina con una sigla, FR, le iniziali di un notissimo giornalista di Repubblica oggi al Corriere della Sera. Andai a parlare con Veltroni. Mi disse, Ciccio, guarda che di FR a l'Unità ne abbiamo tanti". Il 31 dicembre 1999 chiudono le cronache, l'anno dopo il giornale cessa le pubblicazioni. "Andai da Peppino Caldarola, ci trovammo uno di fronte all'altro a piangere". Il giornale tornerà poi in edicola in formato mignon, prima con l'apprezzata coppia Colombo-Padellaro, poi con gestioni più sfortunate, tra altre chiusure e resurrezioni, fino al 2017, nell'era Renzi.

Infine la diatriba infinita "sul trattino" ("Io non l'avrei mai tolto. So cos'è il centro, di più conosco la sinistra. Non ho mai capito cos'è il centrosinistra") e la mai digerita caduta del primo governo Prodi per mano di Bertinotti e la nomina di D'Alema a presidente del Consiglio con i suoi strascichi velenosi. Anche se come andarono le cose sembra sia stato finalmente chiarito, "a distanza di anni D'Alema affermò di essersi pentito di aver accettato l'incarico per non aver valutato le incomprensioni all'interno del partito". Da premier, alle regionali del 2000 D'Alema "decise di impegnarsi nella campagna elettorale. Poteva anche non farlo visto il ruolo istituzionale. La sera dello scrutinio ci trovammo a Palazzo Chigi con Latorre, Velardi, Cuperlo, la segretaria Ornella Massimi. Eravamo in ansia tendente a depressione. A tarda notte telefonò da casa. Andate pure a dormire, tanto abbiamo perso. Domani mi dimetto. Era il primo capo del governo a dimettersi dopo un'elezione locale".

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