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venerdì 22 settembre 2023

Il centenario di Sergio Zavoli: i ricordi e le foto con lui per il libro su San Marino "comunista" che conservo gelosamente

Ieri, 21 settembre, nel centenario della nascita, la Rai ha dedicato docufilm, approfondimenti e l'intero palinsesto di Rai Storia a Sergio Zavoli. Rimini, la sua città adottiva (quella di nascita è Ravenna) lo ha ricordato per due giorni con spettacoli e iniziative varie, tra cui la presentazione del libro di Gianfranco Miro Gori "Provinciali del mondo. Zavoli, Fellini e l'immaginario riminese". A me piace commemorarlo con questo ricordo e un po' di immagini personali, che quando ci penso o le rivedo mi commuovono ancora. 
Era il 25 ottobre del 2012, un giovedì pomeriggio, quando nella Sala del Giudizio del Museo della Città di Rimini presentai per la prima volta il libro “Gli intrighi di una Repubblica”. E’ la storia semi sconosciuta di quando San Marino fu – dal 1945 al 1957 – l’enclave e il simbolo del comunismo in Occidente. Con i socialcomunisti che governavano e continuavano a vincere tutte le elezioni anche dopo la vittoria della Dc in Italia del 1948. Tanto che per cancellare l’onta di quella minuscola macchia rossa che disturbava l’immagine del “mondo libero”, fu organizzato negli Stati Uniti - dalla Cia, con la supervisione di Nixon e la collaborazione del Governo Italiano guidato dal democristiano di Predappio, Adone Zoli - un vero e proprio colpo di Stato.

La locandina della prima presentazione 
Fu Sergio Zavoli a incoraggiarmi a scrivere il libro. Ero andato da lui in cerca di informazioni perché sapevo che conosceva bene San Marino, dov'era sfollato con la famiglia durante la guerra. Sentiva un debito di riconoscenza verso la più antica Repubblica del mondo, di cui era stato anche presidente della sua Tivù di Stato. Ricordo che quando gli parlai del progetto, la prima cosa che mi disse fu: “Finalmente qualcuno che ha voglia di raccontare questa storia. Ti aiuto io a cercare i personaggi che l’hanno vissuta e sanno tutto. Tu intanto potresti cominciare a scrivere di quella volta che il governo socialcomunista per resistere allo strangolamento economico sistematico con cui l’Italia provava a farlo cadere, decise di aprire un Casinò. E l’iniziativa ebbe talmente successo che per impedire a tutta la Riviera di andare sul Monte Titano a giocare, il Governo Italiano mandò i blindati a chiudere i confini”.
Una vicenda che ha dell'incredibile: pensate, i comunisti che aprono un Casinò per rinsanguare le esangui casse dello Stato; i democristiani e la chiesa che gridano allo Stato rovina famiglie e fanno il diavolo a quattro per farlo chiudere; il governo italiano che manda l'esercito. Un particolare che non conoscevo e che mi diede la spinta decisiva a scrivere il libro. 

Fondamentale fu anche il contatto che Zavoli mi diede di Giovanni Michelotti, scomparso alcuni anni fa, per un quarto di secolo vice di Torriani e deus-ex-machina del Giro d’Italia, un grande personaggio che negli anni della guerra fredda tra San Marino e l’Italia si trovava dall’altra parte della barricata: era emigrato in America e venne incaricato dalla Dc di chiamare alle urne i sanmarinesi americani per sconfiggere i rossi alle elezioni del 1955. Organizzò un charter dagli Usa per portarli a votare, ma anche quella volta rivinsero i socialcomunisti e dopo non c’era più nessuno disposto a pagare il viaggio di ritorno. Michelotti e i suoi amici democristiani dovettero rimanere un mese in attesa a Roma, ospiti del Vaticano.

Sul palco del Teatro Titano a San Marino
Il libro andò bene e in particolare a San Marino, dove quella ferita è ancora aperta, fece parecchio parlare di sé. Ebbe buone recensioni, se ne interessò in più occasioni anche la Rai e in seguito furono anche acquistati i diritti per farci un docufilm, che purtroppo non è stato fatto ma che ancora oggi quella storia da film meriterebbe.

Quando finii di scriverlo, lo mandai a Sergio e gli chiesi se era disposto a scrivermi la prefazione. Lo fece con una passione e una cura che mi stupì. Scrisse in modo molto generoso del libro e di me. Volle rivedere anche le virgole, e per ben tre volte, il testo prima dell'ok si stampi. Poi accettò volentieri l’invito per venirlo a presentare a Rimini e a San Marino, nel Teatro Titano. Venne a presentarlo perfino a Brisighella, qualche tempo dopo. Bellissime iniziative, con le sale piene e lui che incantava le platee con quel suo modo unico e affascinante di raccontare.

La presentazione a Brisighella


Sempre a Brisighella
A San Marino fece una cosa che mi intenerì. Lui nel dopoguerra aveva girato un bellissimo documentario su San Marino. Si intitola "Il Monte" e racconta la storia e i riti della Repubblica, ma anche la generosità dei sanmarinesi durante la guerra, quando il Titano – che rimase neutrale nel conflitto – accolse ben centomila sfollati da Rimini e dalla Riviera. 

Gli sfollati dormivano nelle gallerie della ferrovia Rimini-San Martino che oggi purtroppo non c’è più, e al mattino presto qualcuno passava a portare il pane caldo che i fornai del Titano preparavano per loro. C'erano anche le immagini di quella vita da sfollati nel video di Zavoli, che però durava un’ora e mezzo e non si poteva proiettare per intero alla presentazione di un libro. Ebbene, quando glielo feci presente, invece di esserne contrariato, mi disse di non preoccuparmi, si accordò con la Tivù di San Marino e il giorno della presentazione si mise lì, alla moviola, con un montatore, per un paio d'ore, a fare di quel video una versione ridotta, adatta alla  presentazione del libro. Poi me la lasciò. La conservo ancora come una reliquia.


L'esercito italiano al confine di San Marino
La prima pagina della prefazione























Negli ultimi anni della sua vita ogni tanto ci sentivamo. Un paio di volte lo sono andato a trovare al Senato, quando lavoravo anche a Roma. Era, sempre, di una gentilezza e di una signorilità squisita. Delle tante cose belle e grandi che ha fatto nella sua lunga vita di giornalista televisivo, scrittore, poeta, politico, altri hanno scritto e scriveranno ancora tanto. A me piace ricordarlo per quella sua generosità autentica. Un pensiero affettuoso caro Sergio e grazie di cuore. 

domenica 9 luglio 2023

Addio a Giorgio Piancaldini, uno dei testimoni dell'eccidio dei martiri senza nome a Casale di Brisighella

 

Amilcare Piancaldini con la moglie
e i tre figli: in basso Giorgio.

È morto un altro degli ultimi testimoni delle stragi nazifasciste che tra l’estate e l’autunno del 1944 insanguinarono l’appennino tosco-emiliano: Giorgio Piancaldini, figlio di Amilcare, fucilato assieme ad altri quattro giovani a Casale di Brisighella il 4 agosto 1944. Un episodio di cui si era persa la memoria, che ho ricostruito e raccontato nel 2018 nel libro “L’eccidio dei martiri senza nome” (Pendragon). Senza nome perché tre delle cinque vittime sono tuttora ignote. Assieme all’Anpi di Brisighella riuscimmo invece a rintracciare i parenti delle altre due e - attraverso loro e ad altre testimonianze e ricerche – a ricostruire i fatti. Un lavoro che ha portato alla creazione di un luogo della memoria, con una stele realizzata dall’artista Mirta Caroli e, dal 2017, all’inizio di agosto, alla commemorazione dell’eccidio.


Giorgio se n’è andato da qualche mese ma l’ho saputo soltanto ieri. Abitava a Prato. L’avevo visto l’ultima volta alla cerimonia dell’anno scorso a Casale, poi eravamo andati a pranzo assieme. Stava ancora bene, qualche mese dopo si è ammalato. Mi dispiace molto. Ne approfitto per rivolgere attraverso queste righe un pensiero e un abbraccio a tutte le persone che l’hanno conosciuto e gli hanno voluto bene, e per riproporre un pezzo della sua storia.


Amilcare Piancaldini, suo padre, era originario di Piancaldoli in provincia di Firenze e nell'estate del 1944 aveva 36 anni. La sua era una famiglia poverissima, che tirava avanti lavorando un piccolo "ronco". Per tentare di sfuggire alla miseria, i Piancaldini si trasferiscono prima a Barberino del Mugello, poi a Prato, dove il nonno trovò lavoro in una tintoria. Alla fine degli anni Venti Amilcare sposò la giovanissima Egina Capacci, classe 1915. Dalla loro unione nacquero tre figli: Francesca, Piero e Giorgio. Anche Amilcare lavorava in tintoria, mentre la moglie andava a servizio. Poi arrivò la guerra e dopo i primi bombardamenti alleati su Prato la famiglia decise di sfollare a Capanne, sui monti dell’appennino tosco-emiliano, dove abitava la nonna di lei.

“Era una casa contadina, isolata, non distante da a un piccolo borgo - mi raccontò Giorgio Piancaldini, l’unico figlio superstite di Amilcare -. Dopo l'8 settembre nella zona ci fu una retata dei nazifascisti. Cercavano i disertori e i maschi abili alla guerra per mandarli al fronte o deportarli in Germania. A chi veniva preso, tuttavia, era lasciata un’alternativa: andare a lavorare per la Todt, la grande struttura paramilitare tedesca impegnata nella costruzione della Linea Gotica. Il babbo, che doveva sfamare la famiglia, decise di andare: lì almeno la paga era assicurata”.

Quando nell'estate del 1944 l'avanzata degli Alleati verso Nord raggiunge i monti della Romagna-Toscana e comincia perforare la Linea Gotica, il capo squadra della Todt raduna i lavoratori presenti nel cantiere a monte di Bagno di Romagna e dice a tutti di tornarsene a casa. Amilcare Piancaldini si incammina assieme a un gruppetto di compagni lungo la strada che conduce alle Balze di Verghereto. Sono euforici, pensano che sia finalmente finita, di essere liberi. Ma una pattuglia di camicie nere li scambia per “ribelli”, li ferma, li conduce a Sarsina, dove vengono interrogati e picchiati. Al termine, sono quasi tutti rilasciati tranne Amilcare e due parenti della moglie Egina, che vengono arrestati e portati nel carcere politico delle SS in via Salinatore, a Forlì. Non si è mai saputo bene perché.

Con Giorgio Piancaldini
“Da quel che sono riuscito a sapere – mi raccontò Giorgio - i fascisti fermarono i maschi più giovani e il babbo perché sospettavano che fossero disertori che si erano rifiutati di combattere con i repubblichini di Salò, o comunque antifascisti. Mio padre però non si era mai interessato di politica, la sua preoccupazione era quella di mantenere la famiglia e non finire deportato. Dopo l'arresto, mia madre lo cercò a lungo ma senza esito. Mio zio andò diverse volte a Sarsina, poi a Forlì, ma nemmeno lui ottenne notizie precise. Intanto senza più l'aiuto del babbo rischiavamo di morire di fame. La mamma, colta dalla disperazione, decise di tornare con noi figli, a piedi, nella casa di famiglia, a Prato. Durante il percorso bussò a diverse case per avere un riparo per la notte e qualcosa da mangiare. Impiegammo diversi giorni e quando arrivammo la casa era stata devastata e saccheggiata di ogni cosa, non c'erano più nemmeno i letti. Ci sistemammo alla bell’e meglio, da disperati. Poi mia madre riuscì a trovare lavoro a servizio nella casa di un avvocato e mia sorella, che all’epoca aveva ormai 13 anni, andò a lavorare in una fabbrica di tessuti a Prato. Io, che di anni ne avevo sei, venni messo in un istituto di suore e preti assieme a mio fratello più piccolo. In quel collegio però stavo male, ci davano solo pane e acqua, più volte tentai di scappare, ogni volta mi ripresero e mi riportarono indietro. Così rimasi cinque anni in quell'istituto. Tra fame e tristezza, peggio della galera. Mia madre ogni tanto riusciva a portarmi qualcosa da mangiare, ma io continuavo a tentare di scappare. Quando avevo undici anni, mia madre mi disse che se proprio non fossi voluto più stare lì mi avrebbe riportato a casa, a patto che andassi anch’io a lavorare e l’aiutassi a badare mio fratello piccolo. Accettai con gioia. Cominciai a lavorare in un laboratorio tessile, facevo i filati, guadagnavo cento lire a settimana, ogni giorno portavo a scuola il mio fratellino, lo andavo a prendere a fine lezioni e lo tenevo con me in fabbrica fino a sera”.

La presentazione del libro nel teatro
di Brisighella, nel 2018
Egina Capacci, che pur non avendo notizie si è ormai rassegnata alla perdita di suo marito, nell'autunno del 1945 riceve una comunicazione dal Comune di Brisighella. Nel cimitero di Casale hanno aperto una fossa comune e hanno trovato cinque poveri corpi in decomposizione, uno sull'altro, irriconoscibili. Due però avevano ancora in tasca dei documenti. Uno è il tesserino di Gino Carnaccini, venticinquenne di Forlì, una disabilità al piede, impiegato dell’Annona a San Donà di Piave, tornato a casa in licenza e arrestato sul Ponte di Schiavonia mentre sta cercando di recuperare in Posta una lettera che la sua ragazza gli ha scritto. Un altro arresto senza motivo, a caso, come quello di Piancaldini. Sotto di lui, mischiato assieme agli altri tre cadaveri privi di documenti che verranno classificati come "ignoti", c'è il corpo di Amilcare, riconosciuto dal tesserino della Todt che portava con sé.

Una volta identificato il cadavere, il Comune scrive a Egina. “Mia madre andò a Brisighella, gli fecero vedere i pochi effetti personali di papà, riconobbe gli zoccoli che portava sempre ai piedi. Poi, siccome era troppo povera per poter pagare il trasferimento della salma e la sepoltura a Prato, decise di lasciarlo lì, nel cimitero di Casale”. Amilcare venne sepolto in terra, in una cassa di legno povero, sotto una semplice croce anch'essa di legno. “A visitare la sua tomba andai per la prima volta negli anni Cinquanta. Mi ci portò mio cognato. Ricordo la croce di legno vicino alla cappella e al muro di cinta del cimitero. C'era il nome, la data di nascita e di morte. Qualche anno dopo l’hanno dissotterrato e hanno messo i suoi resti nell'ossario”.

“Di lui vivo ho pochissimi ricordi – mi raccontò Giorgio Piancaldini - ero troppo piccolo allora. Però mi è rimasta in mente l’immagine di lui quando, a Capanne, lo vidi arrivare dalla stradina che portava alla casa della nonna con sottobraccio un cavallino a dondolo. Ci ho giocato tanto con quel cavallino. Dalle testimonianze che ho raccolto da grande e dai racconti di mia madre, ho capito che era una persona semplice, generosa, che si adoperava per gli altri. I vicini dicevano che al sabato e alla domenica, quando non lavorava per la Todt, andava ad aiutarli nei lavori nei campi. Mamma invece mi ha sempre detto che lei e il babbo erano molto innamorati”.

sabato 20 maggio 2023

L'alluvione in Romagna e i piedi nel fango del governo e della sinistra che vorrei

 

Con un evento così eccezionale – una quantità di pioggia mai vista e una ventina di fiumi esondati contemporaneamente – probabilmente non c’era pezza, la Romagna sarebbe finita sott’acqua a prescindere. E di fronte a una simile catastrofe la prima cosa che ti viene in mente è di prendere una pala e andare ad aiutare chi si è visto portare via tutto dall’alluvione. È il tempo in cui tutti – istituzioni, protezione civile, esercito, strutture operative, associazioni, tecnici, singoli cittadini – sono chiamati a rimboccarsi le maniche e a fare il possibile per contenere i danni. Non è il tempo delle polemiche. Però ci sono alcune cose che mi frullano dentro da quando la dimensione della tragedia è apparsa chiara. Nell’ondata di mobilitazione e solidarietà che ha subito seguito l’onda di piena - sindaci con sempre meno fondi e mezzi a disposizione che fanno miracoli per stare sul pezzo e dare risposte, strutture e volontari della protezione civile che come sempre si fanno trovare pronti, la popolazione non colpita che accorre a dare una mano a quella ferita, i ragazzi che si organizzano su whatsapp e sui social e vanno di loro sponta a pulire le case allagate, le colonne di aiuti che cominciano ad arrivare da diverse regioni – ha spiccato per la sua assenza il governo.

Sì, Piantedosi ha sorvolato in elicottero le zone alluvionate, Musumeci si è fatto vedere a Bologna, Brichetto Fratin ha rilasciato interviste, ma nelle città più colpite non si è ancora visto nessuno. E per una volta bisogna rendere merito al sottosegretario alle infrastrutture e ai trasporti Galeazzo Bignami, sì, quello che per fare il goliardo si vestiva da nazista, che ha girato nei luoghi del disastro, è stato visto in incognito a Cesena da Diego Bianchi di Propagandalive la notte dell’alluvione e a Monterenzio a “scavare a mani nude” in una strada, come ha scritto il Resto del Carlino, anche se in questo caso l’incognito è sospetto dal momento che gira un video con lui a spostar sassi dalla strada. Forse era lì per rimediare alla figuraccia rimediata dal suo capo con il tweet da San Siro sul derby di champions mentre veniva giù il mondo. Tweet poi cancellato, raddoppiando la bella figura.

Ma l’assenza del signor Presidente del Consiglio e dei suoi ministri nei luoghi del disastro si è notata e a me personalmente ha dato fastidio. Direte: era partita per l’Islanda, poi doveva andare al G7 in Giappone, aveva importanti impegni internazionali. Tutto vero. Ma a me tornano in mente altre sciagure nazionali, Pertini, Mattarella, altri Presidenti del Consiglio. Persone che si sarebbero fatte trovare sul pezzo, sarebbero stati lì qualunque altro impegno avessero, con i piedi nel fango, come i sindaci oggi, a testimoniare che lo Stato c’è.

Invece finora “loro” l’hanno guardata da lontano la catastrofe. Hanno fissato il primo Consiglio dei ministri non all’indomani, ma dopo un a decina di giorni, martedì 23 maggio. Hanno promesso che in quella sede vareranno un decreto aiuti “adeguato alle necessità”. E magari sarà pure vero, ci stupiranno, presenteranno un piano che non avrà niente da invidiare a quello delle bonifiche delle valli alluvionate di quando c’era Lui. Forse sarà proprio per questo, per le garanzie che gli hanno dato, che Bonaccini ha detto e ripetuto di sentire la vicinanza del governo, di apprezzare l’impegno che Meloni, Salvini & Co. gli hanno assicurato. Così, sulla parola. E forse sarà per questo se stavolta anche Mattarella è rimasto stranamente a distanza. Ma per ora il governo ha stanziato trenta miseri milioncini. Ha detto che per i danni bisognerà poi vedere caso per caso, comune per comune. Ha sorvolato sul parallelo fatto da Bonaccini con l’entità dei danni del terremoto del 2012, quando l’allora presidente della Regione, Errani, riuscì a portare a casa sei miliardi da governo Monti. E ha scartato prima ancora di esaminarla la proposta della segretaria Pd di dirottare parte dei fondi del PNRR sul dissesto idrogeologico. Mentre i giornali di destra che sostengono la maggioranza continuano a sparare titoli sulle responsabilità della sinistra che governa da sempre l’Emilia-Romagna.

Per par condicio, confesso che nemmeno la “postura” – come va di moda dire oggi – assunta dall’opposizione sulla catastrofe mi ha finora convinto. Va bene la proposta di Schlein di “spostare risorse del PNRR per la prevenzione e messa in sicurezza del territorio”. Va bene l’invito del Pd “all'unità e alla coesione nazionale” e anche la collaborazione offerta al governo di fronte a simili disastri. Mi farà piacere se i circoli del partito si metteranno “a disposizione dei territori per questa emergenza”. Ma dal Pd e dalla Schlein in particolare mi aspetterei posizioni molto più radicali e politiche coerenti sul contrasto alla crisi climatica, per la transizione energetica, contro il dissesto idrogeologico e il consumo di suolo. A partire dall’Emilia-Romagna. Altrimenti viene il sospetto che sia più apparenza che sostanza. Perché se è sostanza bisogna dire chiaramente che questo nostro modello di sviluppo non regge più, che è necessario cominciare a produrre, consumare e vivere diversamente se vogliamo davvero smettere di vedere queste catastrofi, se non vogliamo uccidere questo nostro mondo e suicidarci con lui.

Nell’uno e nell’altro caso spero che i miei timori vengano smentiti da scelte chiare e convincenti sia del governo sia della sinistra. Ma come diceva il più smaliziato di tutti, “a pensar male si fa peccato ma a volte ci si prende”.

sabato 22 aprile 2023

Un 25 aprile speciale a Pomezia con lo spettacolo teatrale sulla storia di Nunziatina, "la ragazza ribelle"

Martedì festeggerò con i partigiani di ieri e gli antifascisti di oggi il 25 aprile in piazza a Pomezia.

Una Festa della Liberazione speciale, con la storia di Annunziata Verità, "Nunziatina", la staffetta partigiana sopravvissuta a diciotto anni alla fucilazione fascista che ho raccontato tre anni fa nel libro "La ragazza ribelle" e che ora diventa una pièce teatrale. 

Andrà in scena in anteprima in piazza dell’Indipendenza a Pomezia (Roma), nel contesto delle iniziative organizzate dall’Anpi e da una miriade di altre associazioni, tra cui Cgil, Arci e Luca Coscioni. La trasposizione teatrale del romanzo è opera della regista Eleonora Napolitano, con le attrici e gli attori del suo laboratorio di teatro. Sono molto emozionato e curioso di vedere lo spettacolo, che spero di poter portare anche a Faenza, la città di Nunziatina, in Romagna e a Bologna.

Tre anni fa, il 26 marzo, presentai per la prima volta il romanzo in una affollatissima sala del consiglio comunale di Faenza con la compianta presidente nazionale dell'Anpi, Carla Nespolo, e il 25 aprile a Cà di Malanca (Brisighella), uno dei luoghi simbolo della Resistenza in Emilia-Romagna. Lassù, con Nunziatina, c’era Ivano Marescotti - in una delle sue ultime uscite prima dell’insorgere della malattia - a leggere alcune pagine del romanzo in una cornice di pubblico ed emozioni straordinaria. Fu una giornata commovente. Come lo sono stati gli incontri con gli studenti e le altre in iniziative a cui la Nunzia ha quasi sempre partecipato creando una empatia unica, soprattutto con i ragazzi con i quali ha un feeling particolare, forte dei suoi 25 anni di bidella al liceo.




Da allora la storia da film di questa incredibile donna che è stata ed è ancora Annunziata Verità, oggi novantesettenne, se n'è andata in giro per l'Italia e continua tutt’ora il suo viaggio. Ho pubblicato con un piccolissimo editore, la distribuzione è stata artigianale, mi hanno sorpreso le tre ristampe così come mi sorprende che dopo tre anni mi chiedano ancora copie e di scoprire che due librerie di Faenza, neppure le più grandi, abbiano venduto solo loro più di trecento copie. La storia è approdata in tivù nel bel docufilm di Pietro Suber "Lilì Marlene, la guerra degli italiani" (due puntate trasmesse nientemeno che su Mediaset - pensa te la vita che sorprese ti riserva - in occasione del cinquantesimo anniversario dell'entrata in guerra dell'Italia e di cui vi ripropongo qui uno stralcio dell'intervista a Nunziatina https://www.facebook.com/1206636078/videos/2024641831048156/), è stata oggetto di molte presentazioni, incontri e iniziative pubbliche, è diventata materia didattica in diverse scuole (qualche studente delle medie ci ha pure scritto la tesina), un fumetto (quattro splendide tavole realizzate da Francesca Gatto e Chiara Benazzi, pubblicate in una rivista sulle storie delle donne nella Resistenza a cura dell'Anpi di Pomezia e Roma, con "la ragazza ribelle" in copertina) e, da ultimo, lo spettacolo teatrale che va in scena martedì a Pomezia e la graphic novel a cui stanno lavorando i ragazzi della quinta classe del Liceo artistico di Faenza che dovrebbe essere pronta dopo l'estate.
















Nunziatina quest’anno non sarà né a Pomezia né a Cà Malanca a festeggiare con tutti noi e voi la Liberazione dal nazifascismo che fu possibile per il coraggio delle donne e degli uomini che fecero la Resistenza, a ricordarci, in questo periodo buio, che la libertà e la pace non sono acquisite per sempre. 

Ultimamente non è stata tanto bene, ma tranquilli, è una roccia. La sono andata a trovare, bella come il sole come sempre, vi saluta tutti, ci siamo detti che vogliamo festeggiare alla grande i suoi cent’anni.

Lei, come nell'intervista televisiva, continua a ripetere: “Loro ci sono ancora. Ci sono ancora”, riferendosi ai fascisti. E ha ragione. Ne abbiamo avuto conferma in questri mesi dalle parole della Meloni e di La Russa. "In via Rasella i partigiani uccisero una banda musicale di pensionati, non dei nazisti". I 335 delle Fosse Ardeatine "furono uccisi solo perché italiani", non perché erano antifascisti ed ebrei". "La Resistenza è stata manipolata dai comunisti che volevano fare come in Unione Sovietica". "La parola antifascismo non c'è nella Costituzione". "Non possiamo arrenderci alla sostituzione etnica". E via straparlando, piegando la storia a loro piacimento. Facendo la bella presenza all'Altare della Patria il 25 aprile per poi volare a Praga a rendere omaggio a Jan Palach, figura simbolo dell'opposizione all'Unione Sovietica. 

Non lo fanno a caso. E non sono solo provocazioni. Il fatto è, come dice Nunziatina, che "ci sono ancora", sono sempre quelli di allora, i vinti in cerca di rivincita, coloro che odiano i neri, gli immigrati, i musulmani, gli ebrei, i rom, i comunisti, gli omosessuali, le donne libere, i giovani dei rave, chi si fa le canne, gli ambientalisti, gli orsi, la Rakete, Greta, il Papa. E ora che sono al potere vorrebbero vendicarsi di chi li sconfisse nel 1945 e di chi continua a combattere la loro folle idea di una società Dio Patria e Famiglia. Sta a tutti noi impedirlo. A noi che in fondo odiamo una cosa sola: i fascisti. Viva il 25 aprile. Viva i partigiani. Viva la Resistenza e l'antifascismo che è la nostra Costituzione.

martedì 21 marzo 2023

L'amico americano e l'Europa che non c'è

 




Non se ne esce. Dopo aver neutralizzato il Papa ora vogliono silenziare la Cina. Nella guerra tra i tre grandi imperialismi per interposta Ucraina dove ci si gioca la supremazia mondiale per i prossimi decenni, Xi Jinping va da Putin con un piano di pace. Per quanto discutibile, è il primo messo in campo, la prima vera azione diplomatica per cercare di fermare l’orrore di questa guerra. E l’Occidente come reagisce? Incoraggia il tentativo, come sembrerebbe logico? Va a vedere le carte? Si inserisce con una propria proposta più ragionevole? Prova a mettere finalmente le parti attorno un tavolo? Macché.

Biden e la diplomazia Usa si mobilitano e si mettono intensamente al lavoro per demolire sul nascere il tentativo di mediazione cinese. Impongono a tutti i paesi Nato di respingere ogni ipotesi di negoziato, perfino di cessate il fuoco. Stanziano altre vagonate di milioni di dollari e fanno pressioni sull’Europa perché si finanzi l’invio di munizioni, altre armi, nuove armi, ancora armi.

Signori - è il messaggio - la guerra deve andare avanti. L’unica strategia è questa. L’aggressore la deve pagare, noi stiamo con l’aggredito, si può vincere. Può finire solo con la sconfitta totale di Putin e della Russia, il ritiro delle truppe da tutti i territori occupati Crimea compresa. Può finire solo con la "pace giusta" invocata da Zelensky, che se fosse per lui la terza guerra mondiale sarebbe già deflagrata, non quella possibile. Chiunque metta in discussione questa linea, dica o faccia scelte diverse, fa il gioco del Cremlino, è un putiniano.

Intanto si susseguono gli "incidenti" tra Nato e Russia e aumentano le possibilità che qualcuno possa sganciare una bombetta atomica tattica a basso potenziale per vedere l'effetto che fa, che ne hanno tutti una gran voglia. Perché, sappiatelo, c’è chi da tempo sta cercando di convincere i capi di stato e di governo che con l’evoluzione tecnologica anche il nucleare può essere gestito e non è vero che rischieremmo la fine del mondo. Per non parlare dell’enorme business del mercato delle altre armi, in grado ormai di comprarsi anche la politica.

In tutta questa grande e sporca faccenda ci sono tre grandi assenti: l’Onu, l’Europa e la sinistra europea. Hanno tutti delegato alla Nato, al gendarme americano la difesa della democrazia, della libertà, dei nostri valori e princìpi contro la prepotenza della dittatura ex comunista, oggi nella Russia di Putin e domani della Cina di Xi. E questo nei giorni del ventesimo anniversario dell’invasione Usa dell’Iraq per esportare la democrazia e la libertà nel paese di un altro dittatore, Saddam Hussein. E pazienza se poi le armi di distruzione di massa non c’erano e la democrazia non si è radicata, anzi. Lì come in Afghanistan.

Sembrano aver tutti rinunciato alla propria autonomia di pensiero, di azione, al loro ruolo, al pacifismo. Anche la nuova segretaria del Pd, Elly Schlein, che pure sul resto è partita bene, sulla guerra sembra adeguarsi al diktat atlantista di Letta più che seguire i consigli di buonsenso di Bersani, che ha detto: “I capi militari sostengono che non ci può essere una soluzione militare al conflitto, quindi bisogna trattare. Fissare la linea rossa. Difendere l’indipendenza dell’Ucraina evitando però l’escalation. Bisogna dire a Putin guarda che non passi e a Zelensky che si può e si deve negoziare anche con i russi nei territori occupati”.

martedì 14 febbraio 2023

Cambiare il mondo: il coraggio e l'utopia che serve alla sinistra per tornare credibile e ritrovare il suo popolo

 

Anche se l’esito era annunciato non è meno pesante. La larga vittoria della destra nel Lazio e in Lombardia, la bruciante sconfitta del campo progressista e soprattutto il crollo senza precedenti della partecipazione al voto (trenta per cento in meno, a Roma due elettori su tre non sono andati a votare), ci dicono tre cose. Che la sfiducia nella politica ha ormai raggiungo il punto di non ritorno, che la sinistra oggi non è in grado di offrire un’alternativa credibile e una speranza di cambiamento al Paese, che quando si spegne la luce finisce per prevalere il nero che pesca nelle pance, negli egoismi e nelle paure delle persone promettendo ordine, sicurezza, protezione (Dio, patria e famiglia). E’ il vento di destra che spira non solo in Italia ma in tutta Europa di fronte alla crisi che sembra irreversibile del capitalismo e della globalizzazione, alla terza guerra mondiale che avanza, al cambiamento climatico che mette in discussione il nostro modo di vivere, produrre, consumare e l’esistenza stessa del Pianeta, alle diseguaglianze che penalizzano i poveri e rubano il futuro alle nuove generazioni.

Viviamo una stagione buia, di grandi trasformazioni, densa di incognite e pericoli. Servirebbe una classe dirigente illuminata, una politica saggia e dai pensieri lunghi per venirne fuori bene, senza disastri irreparabili. Invece ci ritroviamo, in Italia e nel mondo, con le leadership più scarse e meno lungimiranti di sempre. E con un sistema mediatico che ci propina una narrazione marziana, o da Truman show se preferite, comunque lontana dal mondo reale. Ciò che colpisce, in questa situazione, è che non si levi una voce per dire: ma cosa ci state raccontando, dove ci state portando, vi rendete conto che così andiamo a sbattere? Colpisce che sembrino scomparsi intellettuali e pensatori capaci di immaginare un futuro diverso e un mondo migliore.

Vale per la guerra, dove vediamo solo il dito che copre la luna. Stiamo vivendo in diretta lo scontro tra i grandi imperialismi (quelli decadenti di Usa e Russia, quello in ascesa della Cina) per il dominio del mondo e ci illudiamo che serva armare sempre più Zelensky per sconfiggere Putin e riportare la pace. Vale per la crisi climatica, dalla quale non si esce se non cambia radicalmente il sistema economico del mondo sviluppato. Vale per il capitalismo globalizzato, che è la causa degli sconvolgimenti geopolitici e della crisi ambientale e socioeconomica di oggi e non può essere considerato l’ultima frontiera dello sviluppo dell’umanità, la fine della storia.

Ecco, una politica che si riavvicini al mondo reale dovrebbe essere in grado di dare risposte a queste grandi questioni. E la sinistra, se vuole ritrovare le sue radici e la fiducia del suo popolo, a cominciare dagli ultimi, dovrebbe avere la capacità e il coraggio di indicare una prospettiva diversa da quella del pensiero unico in cui si è fatta inglobare da qualche decennio a questa parte. Una sinistra che propone le stesse ricette della destra, con qualche attenzione in più alla giustizia sociale e ai diritti, non serve e non basta più. Bisogna andare oltre, immaginare un mondo diverso, ridare speranza al cambiamento, costruire una nuova utopia. Altro che campi larghi, terzi poli, stelle cadenti, sinistre riformiste e di governo, primarie del Pd, Bonaccini o Schlein. Se vuole essere credibile la sinistra deve mettere in campo idee nuove, pensieri lunghi, contenuti oserei dire rivoluzionari, e persone che siano coerenti con i valori e le storie che vogliono rappresentare, da cui si possa pensare di comprare un’auto usata senza prendere fregature.

giovedì 19 gennaio 2023

I post-fascisti al potere che vogliono riscrivere la storia



Ci riprovano. Il vizietto di riscrivere la storia l’hanno sempre avuto e adesso che sono al potere tentano di metterlo in pratica. Prima i post commemorativi del Movimento sociale scritti dalla sottosegretaria Isabella Rauti, dal presidente del Senato, Ignazio La Russa, e difesi dalla Presidente del Consiglio che ha definito il Msi “un partito della destra democratica e repubblicana che ha avuto il merito di traghettare milioni di italiani sconfitti della guerra verso la democrazia sottraendoli alla violenza politica”. Per questo il partito di Rauti (fondatore di Ordine Nuovo) e Almirante (che difese le leggi razziali), le cui “radici profonde non gelano” (Isabella Rauti), “merita rispetto” (Meloni) o addirittura “onore” (La Russa). 

Ora la proposta di legge per istituire una commissione d'inchiesta sugli anni di piombo, primo firmatario il vicepresidente della Camera, Fabio Rampelli. Obiettivo, fare luce "sulla violenza politica” degli anni Settanta e Ottanta e "sui tanti delitti di quegli anni rimasti senza colpevoli”, dimenticando naturalmente le vittime di sinistra di quella stagione. Una vecchia battaglia dei post-fascisti di FdI che nei prossimi mesi potrebbe approdare all’esame del Parlamento.

Ma la madre di tutti i tentativi revisionisti rimane la cancellazione della matrice e della parola fascista per la strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980: 85 morti e 218 feriti. Di tutte le stragi fasciste, peraltro, la sola di cui abbiamo nomi e cognomi degli esecutori, dei depistatori e ora anche dei mandanti e finanziatori. Ma le sentenze definitive di condanna per i terroristi neri dei Nuclei armati rivoluzionari Francesca Mambro, Valerio Fioravanti e Luigi Ciavardini, per il capo della loggia massonica P2 Licio Gelli e di alti esponenti dei servizi segreti, e quelle di primo grado (all’ergastolo) di Gilberto Cavallini (Nar) e Paolo Bellini (Avanguardia nazionale) dalle quali è emersa con chiarezza anche la responsabilità di Gelli come mandante e finanziatore, continuano a essere al centro di una potente campagna politica e mediatica di delegittimazione, al punto che un pezzo rilevante di opinione pubblica dà ormai per acquisito che tali condanne non valgano nulla.

Una campagna revisionista e di depistaggio ideologico portata avanti da esponenti di spicco del partito di Meloni, che lo scorso 2 agosto, nel quarantaduesimo anniversario della strage, scrisse: "Gli 85 morti e gli oltre 200 feriti della strage alla stazione meritano giustizia, per questo continueremo a chiederla insieme alla verità. Lo dobbiamo alle famiglie delle vittime e a tutto il popolo italiano". Come se non esistesse alcuna sentenza. Come se la verità fosse occulta e negata. 

Non mancano due elementi particolarmente ignobili in questa storia. Il primo attiene alla certezza della pena, che in questo nostro paese è un concetto molto relativo. Mambro e Fioravanti, che insieme sono stati condannati a diciassette ergastoli (nove lei e otto lui) per trentatre omicidi, ma da sempre al centro della campagna innocentista di Meloni & co., sono da anni tornati in libertà. E parlano pure, rilasciano interviste, indicano strade alla gustizia. 

Il secondo riguarda il dna umano di questi criminali. Tra le vittime della strage di Bologna c'è un ragazzo romano di 24 anni, Mauro Di Vittorio, che aveva militato nella sinistra extraparlamentare. Per i casi della vita sua sorella, Anna, finirà per conoscere e sposare un amico fraterno di Sergio Secci, anch’egli morto il 2 agosto 1980 alla stazione, figlio di Torquato, storico presidente dell'associazione dei familiari delle vittime. Nel 2008 Anna Di Vittorio e suo marito, Gian Carlo Calidori, scrissero una lettera a Francesca Mambro e Giusva Fioravanti finalizzata a chiudere la stagione dei lutti e del dolore e ad aprire quella della riconciliazione. Mambro e Fioravanti risposero. Ne nacque un carteggio e seguirono anche alcuni incontri. Anna e Gian Carlo appoggiarono con una lettera la richiesta di libertà condizionale per Mambro, che pare abbia contribuito al parere positivo del giudice. Dopo qualche anno i rapporti tra la coppia di terroristi e quella dei congiunti delle vittime si sono raffreddati. E Fioravanti, con una lettera pubblicata dal “Giornale” nel 2012, sapete che ha fatto? Ha chiesto perché nella ricerca dei responsabili della strage “non si è indagato meglio su Mauro Di Vittorio?”. 

I commenti li lascio a voi lettori. Per parte mia aspetto con curiosità i prossimi 25 aprile e 2 agosto. Sarà interessante osservare cosa farà e cosa dirà il Signor Presidente del Consiglio