Tra le grandi questioni che angosciano i cittadini del mondo in questi anni bui - le guerre, i disastri causati dai cambiamenti climatici, la povertà e le diseguaglianze crescenti, la paura del futuro – ce n’è una che è peculiarmente italiana nel contesto europeo: quella dei salari. Troppo bassi, sempre più bassi, per molti ormai insufficienti a vivere decorosamente, tanto da costringere quote crescenti di famiglie non solo dei lavori più poveri ma anche del fu ceto medio, a rinunciare a beni, servizi e attività considerati indispensabili per avere una vita dignitosa: l’accessibilità alla casa, all’istruzione e alle cure, la possibilità di fare viaggi, di andare a un concerto, a teatro o al cinema, di iscrivere i figli a una attività sportiva o ricreativa. Solamente il rito dell’aperitivo e del mangiare fuori sembra strenuamente resistere.
Una situazione di crisi e depressione crescente in cui lo scopo principale della società sembra diventato quello di far soldi: dall’industria che al supermercato fa arrivare confezioni con il 20% di prodotto in meno allo stesso prezzo di prima, al proprietario immobiliare che ti affitta un sottoscala a mille euro al mese; dallo specialista che ti chiede un rene per una visita o un intervento, all’elettricista o all’idraulico che spara cifre da capogiro per cambiare una presa o un rubinetto, a meno che non lo paghi in nero; fino al dehor del centro che ti fa pagare venti euro un tagliere coi i salumi della coop e 8-10 euro un calice di vino o uno spritz. Ovunque ti giri trovi gente che cerca di cavare sangue dalle rape, e le rape siamo noi, cittadini e consumatori.L’ultimo aggiornamento sui salari è di ieri e l’ha fornito l’Istat. Nel terzo trimestre del 2025 i salari reali degli italiani sono diminuiti dell’8,8% rispetto al gennaio 2021. Le retribuzioni aumentano nominalmente ma non tengono il passo dell’inflazione e del caro vita, così il potere d’acquisto continua a calare. L’Italia si conferma pecora nera in Europa. Il nostro stipendio medio lordo mensile, secondo Ocse e Eurostat, nel 2023 era di circa 2.729 euro, contro una media europea di 3.155 euro. I lavoratori italiani guadagnavano dunque, in media, 429 euro in meno al mese rispetto a un lavoratore europeo, pari a oltre 5.000 euro all’anno. E dal 2023 a oggi il divario si è ulteriormente allargatro. Le ragioni di questo divario sono molte, a cominciare dallo scandaloso ritardo con cui vengono solitamente rinnovati i contratti collettivi di lavoro. Con il governo Meloni, il ritardo dei rinnovi è aumentato in media da 18,3 a 27,9 mesi. Il contratto dei dipendenti pubblici del triennio 2019-2021, per dire, è stato rinnovato solo a dicembre 2022 e i soldi in busta paga sono arrivati quattro anni dopo l’inizio del periodo che avrebbe dovuto coprire. E anche il contratto in vigore, scaduto nel 2024, non è stato ancora rinnovato e nemmeno il nuovo è alle viste. Nel privato va ancora peggio, ci sono contratti scaduti da sei-sette anni e anche più non ancora rinnovati. Ritardi che, come capisce anche un bambino, contribuiscono a far perdere valore reale alle retribuzioni, ai soldi che abbiamo in tasca.
Andando a ritroso, sempre secondo l’Ocse, le retribuzioni medie degli italiani rispetto al 1990, in termini reali, sono rimaste sostanzialmente ferme (+ 0,36%). A differenza del resto d’Europa dove le retribuzioni medie sono state quasi ovunque in costante crescita, come si può vedere dal grafico d'apertura. Nei paesi baltici salari e stipendi sono addirittura triplicati negli ultimi 25 anni, e in diversi paesi dell’Europa centrale sono raddoppiati. In Francia e Germania sono cresciuti più della media Ocse, che è del 33%; in Svezia del 72%, in Irlanda dell’82%. Nella “povera” Spagna il salario minimo è cresciuto del 61% tra il 2018 e oggi, passando da 735 a 1.184 euro, mentre quello medio è aumentato del 4% negli ultimi due anni. In Italia invece siamo rimasti al palo, il governo ha bocciato il salario minimo proposto dall'opposizione, intanto proliferano i contratti a termine, il lavoro precario e sottopagato, lo Stato e gli Industriali non rinnovano i contratti, così un operaio o un impiegato guadagna mediamente dai quattro ai cinquemila euro in meno all’anno rispetto a quelli degli altri paesi europei più sviluppati.
Un commesso di IV livello parte nel 2019 da 1.584 euro lordi al mese e sale a 1.802 nel novembre 2025, con un aumento del 13,77%. Con l’inflazione al 20,6% il suo potere d’acquisto si è ridotto di 2.458 euro l’anno, danno sceso poi a 993 euro l'anno con il taglio del cuneo e la riduzione Irpef.
Un responsabile vendite (quadro) che nel 2019 guadagnava 2.620 euro lordi mensili, a novembre 2025 raggiunge i 2.933 euro, con un aumento dell’11,94%, ma l’inflazione gliene mangia 3.129, che con le misure governative scendono a 1.683 euro l’anno.
In tutti i casi singoli analizzati, dunque, i salari reali si sono ridotti perché i datori di lavoro, pubblici e privati, non adeguano le retribuzioni al ritmo dell’inflazione, i rinnovi contrattuali arrivano con anni di ritardo e gli aumenti non riescono a compensare la crescita dei prezzi. "Il potere d’acquisto - ci dice il Dataroom - non si salvaguarda con la riduzione delle tasse ma con il rinnovo dei contratti di lavoro e gli aumenti salariali". Ma nessuno al governo sembra preoccuparsi di questo. Loro fanno i sovranisti, nell'interesse della Nazione ma col culo degli altri.













