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domenica 9 luglio 2023

Addio a Giorgio Piancaldini, uno dei testimoni dell'eccidio dei martiri senza nome a Casale di Brisighella

 

Amilcare Piancaldini con la moglie
e i tre figli: in basso Giorgio.

È morto un altro degli ultimi testimoni delle stragi nazifasciste che tra l’estate e l’autunno del 1944 insanguinarono l’appennino tosco-emiliano: Giorgio Piancaldini, figlio di Amilcare, fucilato assieme ad altri quattro giovani a Casale di Brisighella il 4 agosto 1944. Un episodio di cui si era persa la memoria, che ho ricostruito e raccontato nel 2018 nel libro “L’eccidio dei martiri senza nome” (Pendragon). Senza nome perché tre delle cinque vittime sono tuttora ignote. Assieme all’Anpi di Brisighella riuscimmo invece a rintracciare i parenti delle altre due e - attraverso loro e ad altre testimonianze e ricerche – a ricostruire i fatti. Un lavoro che ha portato alla creazione di un luogo della memoria, con una stele realizzata dall’artista Mirta Caroli e, dal 2017, all’inizio di agosto, alla commemorazione dell’eccidio.


Giorgio se n’è andato da qualche mese ma l’ho saputo soltanto ieri. Abitava a Prato. L’avevo visto l’ultima volta alla cerimonia dell’anno scorso a Casale, poi eravamo andati a pranzo assieme. Stava ancora bene, qualche mese dopo si è ammalato. Mi dispiace molto. Ne approfitto per rivolgere attraverso queste righe un pensiero e un abbraccio a tutte le persone che l’hanno conosciuto e gli hanno voluto bene, e per riproporre un pezzo della sua storia.


Amilcare Piancaldini, suo padre, era originario di Piancaldoli in provincia di Firenze e nell'estate del 1944 aveva 36 anni. La sua era una famiglia poverissima, che tirava avanti lavorando un piccolo "ronco". Per tentare di sfuggire alla miseria, i Piancaldini si trasferiscono prima a Barberino del Mugello, poi a Prato, dove il nonno trovò lavoro in una tintoria. Alla fine degli anni Venti Amilcare sposò la giovanissima Egina Capacci, classe 1915. Dalla loro unione nacquero tre figli: Francesca, Piero e Giorgio. Anche Amilcare lavorava in tintoria, mentre la moglie andava a servizio. Poi arrivò la guerra e dopo i primi bombardamenti alleati su Prato la famiglia decise di sfollare a Capanne, sui monti dell’appennino tosco-emiliano, dove abitava la nonna di lei.

“Era una casa contadina, isolata, non distante da a un piccolo borgo - mi raccontò Giorgio Piancaldini, l’unico figlio superstite di Amilcare -. Dopo l'8 settembre nella zona ci fu una retata dei nazifascisti. Cercavano i disertori e i maschi abili alla guerra per mandarli al fronte o deportarli in Germania. A chi veniva preso, tuttavia, era lasciata un’alternativa: andare a lavorare per la Todt, la grande struttura paramilitare tedesca impegnata nella costruzione della Linea Gotica. Il babbo, che doveva sfamare la famiglia, decise di andare: lì almeno la paga era assicurata”.

Quando nell'estate del 1944 l'avanzata degli Alleati verso Nord raggiunge i monti della Romagna-Toscana e comincia perforare la Linea Gotica, il capo squadra della Todt raduna i lavoratori presenti nel cantiere a monte di Bagno di Romagna e dice a tutti di tornarsene a casa. Amilcare Piancaldini si incammina assieme a un gruppetto di compagni lungo la strada che conduce alle Balze di Verghereto. Sono euforici, pensano che sia finalmente finita, di essere liberi. Ma una pattuglia di camicie nere li scambia per “ribelli”, li ferma, li conduce a Sarsina, dove vengono interrogati e picchiati. Al termine, sono quasi tutti rilasciati tranne Amilcare e due parenti della moglie Egina, che vengono arrestati e portati nel carcere politico delle SS in via Salinatore, a Forlì. Non si è mai saputo bene perché.

Con Giorgio Piancaldini
“Da quel che sono riuscito a sapere – mi raccontò Giorgio - i fascisti fermarono i maschi più giovani e il babbo perché sospettavano che fossero disertori che si erano rifiutati di combattere con i repubblichini di Salò, o comunque antifascisti. Mio padre però non si era mai interessato di politica, la sua preoccupazione era quella di mantenere la famiglia e non finire deportato. Dopo l'arresto, mia madre lo cercò a lungo ma senza esito. Mio zio andò diverse volte a Sarsina, poi a Forlì, ma nemmeno lui ottenne notizie precise. Intanto senza più l'aiuto del babbo rischiavamo di morire di fame. La mamma, colta dalla disperazione, decise di tornare con noi figli, a piedi, nella casa di famiglia, a Prato. Durante il percorso bussò a diverse case per avere un riparo per la notte e qualcosa da mangiare. Impiegammo diversi giorni e quando arrivammo la casa era stata devastata e saccheggiata di ogni cosa, non c'erano più nemmeno i letti. Ci sistemammo alla bell’e meglio, da disperati. Poi mia madre riuscì a trovare lavoro a servizio nella casa di un avvocato e mia sorella, che all’epoca aveva ormai 13 anni, andò a lavorare in una fabbrica di tessuti a Prato. Io, che di anni ne avevo sei, venni messo in un istituto di suore e preti assieme a mio fratello più piccolo. In quel collegio però stavo male, ci davano solo pane e acqua, più volte tentai di scappare, ogni volta mi ripresero e mi riportarono indietro. Così rimasi cinque anni in quell'istituto. Tra fame e tristezza, peggio della galera. Mia madre ogni tanto riusciva a portarmi qualcosa da mangiare, ma io continuavo a tentare di scappare. Quando avevo undici anni, mia madre mi disse che se proprio non fossi voluto più stare lì mi avrebbe riportato a casa, a patto che andassi anch’io a lavorare e l’aiutassi a badare mio fratello piccolo. Accettai con gioia. Cominciai a lavorare in un laboratorio tessile, facevo i filati, guadagnavo cento lire a settimana, ogni giorno portavo a scuola il mio fratellino, lo andavo a prendere a fine lezioni e lo tenevo con me in fabbrica fino a sera”.

La presentazione del libro nel teatro
di Brisighella, nel 2018
Egina Capacci, che pur non avendo notizie si è ormai rassegnata alla perdita di suo marito, nell'autunno del 1945 riceve una comunicazione dal Comune di Brisighella. Nel cimitero di Casale hanno aperto una fossa comune e hanno trovato cinque poveri corpi in decomposizione, uno sull'altro, irriconoscibili. Due però avevano ancora in tasca dei documenti. Uno è il tesserino di Gino Carnaccini, venticinquenne di Forlì, una disabilità al piede, impiegato dell’Annona a San Donà di Piave, tornato a casa in licenza e arrestato sul Ponte di Schiavonia mentre sta cercando di recuperare in Posta una lettera che la sua ragazza gli ha scritto. Un altro arresto senza motivo, a caso, come quello di Piancaldini. Sotto di lui, mischiato assieme agli altri tre cadaveri privi di documenti che verranno classificati come "ignoti", c'è il corpo di Amilcare, riconosciuto dal tesserino della Todt che portava con sé.

Una volta identificato il cadavere, il Comune scrive a Egina. “Mia madre andò a Brisighella, gli fecero vedere i pochi effetti personali di papà, riconobbe gli zoccoli che portava sempre ai piedi. Poi, siccome era troppo povera per poter pagare il trasferimento della salma e la sepoltura a Prato, decise di lasciarlo lì, nel cimitero di Casale”. Amilcare venne sepolto in terra, in una cassa di legno povero, sotto una semplice croce anch'essa di legno. “A visitare la sua tomba andai per la prima volta negli anni Cinquanta. Mi ci portò mio cognato. Ricordo la croce di legno vicino alla cappella e al muro di cinta del cimitero. C'era il nome, la data di nascita e di morte. Qualche anno dopo l’hanno dissotterrato e hanno messo i suoi resti nell'ossario”.

“Di lui vivo ho pochissimi ricordi – mi raccontò Giorgio Piancaldini - ero troppo piccolo allora. Però mi è rimasta in mente l’immagine di lui quando, a Capanne, lo vidi arrivare dalla stradina che portava alla casa della nonna con sottobraccio un cavallino a dondolo. Ci ho giocato tanto con quel cavallino. Dalle testimonianze che ho raccolto da grande e dai racconti di mia madre, ho capito che era una persona semplice, generosa, che si adoperava per gli altri. I vicini dicevano che al sabato e alla domenica, quando non lavorava per la Todt, andava ad aiutarli nei lavori nei campi. Mamma invece mi ha sempre detto che lei e il babbo erano molto innamorati”.

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