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martedì 20 maggio 2014

L'Emilia del terremoto due anni dopo: il punto sulla ricostruzione.

Sono passati due anni dalla prima delle due tremende scosse di magnitudo 5,9 e 5,8 della scala Richter che il 20 e il 29 maggio 2012 sconvolsero la pianura emiliana, in particolare nell’area compresa tra Bologna, Ferrara e Modena, provocando 28 morti, più di 300 feriti, 45mila sfollati e danni per oltre 13 miliardi di euro. 



Fu uno shock tremendo, anche perché quel territorio, adagiato com’è sulla pianura alluvionale e sulle terre di bonifica, si pensava al sicuro dal terremoto. Ma sotto quel terreno soffice e argilloso c’è un lembo nascosto di Appennino, all’insaputa dei più. E nel lontano 1570 a Ferrara c’era stato un precedente disastroso che provocò centinaia di morti. Ciò nonostante, sotto l’aspetto normativo l’area del “cratere” era considerata di livello 3, a bassa sismicità, tanto che non erano previste particolari precauzioni costruttive: le travi dei prefabbricati (palestre comprese), ad esempio, erano solo appoggiate, non agganciate alle pareti. Una leggerezza della comunità scientifica e della politica responsabile dei crolli dei capannoni industriali e del maggior numero di vittime. 





L’Emilia, come nella sua migliore tradizione, ha comunque reagito presto e bene alla tragedia. Tutti si sono rimboccati le maniche e dati un gran daffare per rialzarsi, curarsi le ferite e ripartire. I sindaci rimasti senza municipio hanno attrezzato alla bell’e meglio i gazebo sotto qualche tiglio e riaperto i loro uffici “h24”. La Regione, con la Protezione civile e la rete diffusa della solidarietà, ha coordinato i soccorsi, i primi aiuti e gli interventi di emergenza garantendo dignità e assistenza alla popolazione colpita. I cittadini, guidati dalla Soprintendenza, hanno raccolto e messo da parte le antiche pietre dei castelli e dei monumenti storici distrutti per poterli ricostruire domani, com’erano. Gli imprenditori del forte distretto biomedicale, che dà ricchezza al Paese e occupazione a centinaia di migliaia di persone, hanno riparato in fretta le fabbriche o trovato altri capannoni dove ricominciare a produrre, senza aspettare l’aiuto dello Stato. La stessa cosa hanno fatto gli artigiani e i contadini.



Il governatore dell’Emilia-Romagna, Vasco Errani, si è speso molto, e bene, prima per avviare e poi per realizzare nel migliore dei modi possibili l’opera di ricostruzione. Ci ha messo la faccia garantendo che non un euro di più di quel che serve per riparare i danni sarà chiesto allo Stato e speso dalla pubblica amministrazione. Ha rifiutato la logica delle “new town” e tenuto lontano gli affaristi, ribaltando la politica che aveva contraddistinto l’opera disastrosa del governo Berlusconi nel terremoto dell’Abruzzo. E ha convinto il governo Monti, nel momento più difficile per il nostro Paese, a stanziare risorse molto consistenti (8,5 miliardi di euro) per rifare come prima e più sicuri di prima i centri storici e i 14mila vecchi palazzi distrutti, per riaprire le 570 scuole e le 290 chiese danneggiate, per finanziare con il super mutuo da 6 miliardi contratto dallo Stato con la Cassa Depositi e Prestiti la ricostruzione dei 33mila edifici privati, tra case private e aziende, lesionati dalle scosse. E’ poi riuscito ad ottenere dal governo Letta, nel febbraio del 2013, la garanzia del risarcimento del 100% del danno per chi ha avuto la casa o l’azienda danneggiata, e a quel punto le pratiche, i progetti e i cantieri hanno cominciato a correre, pur nei limiti e con i lacci ancora eccessivi della burocrazia. Ha voluto poche tendopoli, pochi container e pochi moduli abitativi - e tutti per il minor tempo possibile - optando per i “contributi di autonoma sistemazione” e prevedendo nelle clausole d’appalto il montaggio e lo smontaggio delle strutture provvisorie, per accelerare il ritorno degli sfollati nelle loro case, degli studenti nelle loro scuole, degli operatori pubblici e privati nei loro servizi e nei loro negozi. Ora, a due anni di distanza, si può dire che la ricostruzione dell’Emilia ferita è a metà dell’opera. Tra molte luci e qualche ombra.

Le cattive notizie sono, nell’ordine: le 15mila persone, pari a un terzo degli sfollati, che vivono ancora fuori casa; i 1.800 terremotati che stanno ancora nei container a Mirandola, Cavezzo, Concordia, San Possidonio, Novi, San Felice e Cento, alle prese peraltro con bollette Enel salatissime perché lì dentro tutto funziona a corrente elettrica; i 600 agricoltori che abitano nei moduli provvisori a fianco delle loro aziende ancora non ristrutturate; la burocrazia che fa procedere a rilento le pratiche di ricostruzione degli edifici, soprattutto nei centri storici; la fiscalità di vantaggio per cittadini e imprese del “cratere” che ancora non si vede.

Le buone notizie invece sono: più della metà delle risorse stanziate (quasi 5 miliardi di euro) sono già state impegnate nei progetti di ricostruzione; 15 mesi dopo l’avvio concreto dei cantieri, gli edifici ricostruiti sono 1.572, mentre gran parte dei 6.345 progetti presentati sono già stati approvati e finanziati; sette famiglie su dieci sono già potute rientrare nelle loro case; dei 40mila cassintegrati che c’erano all’indomani del sisma, ne sono rimasti soltanto 215; tre quarti delle scuole e poco meno della metà dei palazzi pubblici sono di nuovo agibili o in via di ristrutturazione, le tendopoli non ci sono più da tempo, e i primi moduli e container sono stati smontati; i controlli antimafia hanno funzionato, e la criminalità organizzata per ora ha soltanto lambito il grande business della ricostruzione (una ventina le aziende espulse dai cantieri).

C’è ancora molto lavoro da fare nell’Emilia terremotata. Ma i paragoni con i precedenti terremoti, in particolare con l’Aquila dove dopo cinque anni la ricostruzione è appena cominciata, non sono proponibili.

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