Oggi, domenica 25 maggio 2025, sul Corriere della Sera c’è un’intervista molto bella di Aldo Cazzullo e Marco Bonarrigo a Eddy Mercks, nella quale il “cannibale” del ciclismo ricorda tra l’altro la rivalità ma anche l’amicizia con Felice Gimondi, le sue sfide epiche con i campioni di allora e il suo amore per l’Italia https://www.corriere.it/cronache/25_maggio_25/eddy-merckx-intervista-c6a9d76a-ef1f-49d2-92d9-e706f7663xlk.shtml?refresh_ce. Così mi è tornato in mente un inedito di quel periodo che anni fa mi svelò l’ex “deus ex machina” della Corsa Rosa, Giovanni Michelotti, per un quarto di secolo vice del direttore Vincenzo Torriani. L’avevo già pubblicato nel 2015, ma mi sembra ancora interessante. Uno scoop mai smentito, a Giro in corso.
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L'arrivo vittorioso di Felice Gimondi alle Tre Cime di Lavaredo |
“Adesso le racconto una storia che non ho mai raccontato a nessuno. Ma mi deve promettere di non scriverla finché io sono in vita, perché non voglio che il protagonista ne sia danneggiato”. Era la primavera 2012 quando Giovanni Michelotti, per un quarto di secolo vice di Vincenzo Torriani e “deus ex machina” del Giro d’Italia, mi raccontò questa storia e mi fece fare questa promessa. Giovanni se n’è andato nell’ottobre del 2014, e Felice Gimondi, il campione protagonista del racconto, ci ha lasciati il 16 agosto 2019. Quel segreto, che è un pezzo di storia del nostro ciclismo, si può dunque svelare.
Ero andato a trovare Michelotti a casa sua, a San Marino, per raccogliere materiale e testimonianze sul libro a cui stavo lavorando, “Gli intrighi di una Repubblica”, ambientato nel primo dopoguerra proprio sul Titano, quando quel piccolissimo Stato, poi diventato paradiso fiscale e simbolo del capitalistico più sfrenato, fu per dodici anni l’enclave del comunismo in Occidente. E per abbattere il governo socialcomunista che anche dopo la sconfitta del fronte popolare del 1948 continuava a vincere tutte le elezioni, fu addirittura organizzato dalla Cia e dal governo italiano un colpo di Stato. Michelotti aveva avuto un ruolo in quella storia. Da imprenditore e democristiano emigrato in America aveva ricevuto dalla Dc l’incarico di organizzare un volo charter per il rimpatrio dei sammarinesi finalizzato a vincere le elezioni del 1955. Da grande organizzatore qual era lo fece, portò un centinaio di sammarinesi degli States a votare sul Monte, ma anche quella volta vinsero i socialcomunisti e dopo nessuno voleva più pagare agli emigrati il viaggio di ritorno.
Nel ricordare i fatti di quella incredibile storia che tanto ricorda la saga di Peppone e Don Camillo, tra aneddoti e risate, Giovanni si era sciolto e aveva deciso di raccontarmi anche un episodio inedito del Giro d’Italia del 1967, il primo dei tre vinti da Felice Gimondi. È l’8 giugno 1967 e il campione da battere è il francese Jacques Anquetil, all’epoca trentatreenne e ormai a fine carriera. Gli emergenti sono Gimondi, 25 anni, e il ventenne fiammingo Eddy Merckx. E’ la 19esima delle 24 tappe previste e la maglia rosa è sulle spalle di Silvano Schiavon, discreto scalatore ma solo un comprimario del Giro. Si parte da Udine e si arriva alle Tre Cime di Lavaredo: tappa durissima con arrivo inedito, al termine di una salita molto impegnativa. La strada che conduce ai 2.320 metri del rifugio Auronzo è stretta, ripida e sterrata. Per di più quel giorno sulle Tre Cime nevica.
“I corridori faticavano a stare in equilibrio – racconta Michelotti - le migliaia di appassionati che si erano radunati lungo gli ultimi chilometri di quella salita si erano sentiti in dovere di spingerli più del solito, anche per evitare che scivolassero sul fondo fangoso e innevato. Quel giorno, d’accordo con prefetto di Belluno, avevo schierato un migliaio di alpini sul percorso. Stavano lì dalle 7 del mattino, per scaldarsi bevevano grappa, al pomeriggio erano quasi tutti ubriachi, anche loro si misero a spingere i ciclisti, se li buttavano da uno all’altro divertendosi come matti: un macello”.
Tutti gli atleti, chi più chi meno, beneficiano delle spinte. Tranne uno, il ventiduenne Vladimiro Panizza, scalatore puro, al suo primo anno da professionista che in quella bufera tenta la fuga per la sua prima vittoria, ma viene ripreso e superato a pochi chilometri dall’arrivo dai campioni in lotta per il primato. Al traguardo Gimondi precede Mercks e Motta, stacca il favorito Anquetil e si prende la maglia rosa. Panizza arriva stremato e in lacrime.
“Ma il mio amico e compagno di tante avventure, Sergio Zavoli, il mitico cronista Rai al Giro, sempre alla ricerca di argomenti di rilievo per il ‘Processo alla tappa’ che teneva incollati al teleschermo milioni di spettatori, trasformò le spinte ai campioni e le lacrime di Panizza nel caso del giorno, fino a convincere Torriani ad annullare la tappa. Io lo seppi quando la notizia dell’annullamento era già diventata ufficiale e ne fui molto contrariato. È vero, c’erano state spinte, ma non mi pareva giusto vanificare il gesto atletico di un corridore come Gimondi. E men che meno mi andava giù che quella decisione finisse per penalizzare l’italiano e premiare il francese”.
Gimondi è infuriato e minaccia di ritirarsi. “Dipendesse da me, domani non si parte; se mi obbligano farò il turista”, dichiara. La sua squadra, la Salvarani, lo convince a ripartire. Il giorno dopo, nella tappa da Cortina a Trento vinta da Adorni, la maglia rosa passa ad Anquetil. La tappa successiva, da Trento a Tirano, comprende altre due salite impegnative: il Tonale e l’Aprica. Michelotti, che ancora non ha digerito la decisione di due giorni prima, aspetta l’occasione buona per rendere giustizia a Gimondi. E l’occasione si presenta in quella terzultima tappa. Il campione bergamasco va subito all’attacco e stacca Anquetil sul Tonale. Nella discesa, però, il francese rientra. In fondo, a Ponte di Legno, c’è il rifornimento. Gimondi lo salta e riparte all’attacco, distanziando di qualche decina di metri il suo avversario.
“Quando vedo Felice allungare in fondo alla discesa del Tonale – racconta Michelotti – mando due motociclisti a fare blocco dietro, con l’ordine tassativo di non fare passare nessuno, nemmeno la macchina della Rai con Zavoli e la telecamera. Poi con l’ammiraglia affianco Gimondi nel gruppetto di testa e gli dico ‘dai che andiamo’. Lui è uno sveglio, capisce al volo e si mette in scia. Poi dico al mio fedele autista, Isidoro, il più bravo del Giro, l’unico che conosce le mie intenzioni: dai, accelera, se riusciamo mi vendico delle Tre Cime. L’abbiamo portato via così, Felice. Nel tratto in discesa fino agli 80-90 all’ora, sul piano a 50-55. Poi sulle rampe dell’Aprica lui ha fatto il resto, è arrivato al traguardo con più di quattro minuti di vantaggio, si è ripreso la maglia rosa e ha vinto il Giro. Io sono stato l’unico testimone di quel suo straordinario volo fino a Tirano. Nessuno ha potuto documentare l’aiutino. Nemmeno Zavoli riuscì a scoprirlo. Nel dopo tappa e nei giorni successivi si vociferava. Anche Sergio raccontò che qualcosa di strano era accaduto, ma se lo immaginò soltanto perché le immagini non le aveva. A distanza di anni, Raphael Geminiani, direttore sportivo di Anquetil, mi venne ad accusare apertamente di avere favorito Gimondi ai danni del suo corridore. Ma’Gem’ era un personaggio pittoresco, un gran chiacchierone, soprattutto dopo aver bevuto qualche bicchiere. Avevamo le stesse origini romagnole, era un amico, la protesta finì con un’altra bevuta e una pacca sulle spalle. Non l’ho mai confessato a nessuno quel che ho combinato quel giorno, e nemmeno Gimondi l’ha fatto. È stato l’unico gesto antisportivo della mia lunga carriera. Ma era sacrosanto, un atto di giusta riparazione a un campione che stava strameritando la sua prima vittoria al Giro”. Al traguardo finale di Milano Gimondi vince la Corsa Rosa con 3’36 su Franco Balmamion e 3’45 sul francese.
Dopo la morte di Michelotti, prima di pubblicare questa inedita pagina dell’epopea del Giro, chiamai Gimondi, il campione che è stato tra i pochi al mondo a vincere tutte e tre le grandi corse a tappe (Giro, Tour e Vuelta), vincitore del campionato del mondo nel 1973 e di numerose classiche, nonostante la concorrenza in quegli anni del “cannibale”, Eddy Mercks. Felice ricordava benissimo quei giorni al Giro e quella tappa. E non smentì la ricostruzione di Michelotti, un uomo che ricordava con grande affetto e stima: “Era un grande, un organizzatore nato – mi disse - un duro che sapeva ascoltare i corridori e imporre le regole giuste in corsa. Le faccio solo un esempio delle sue capacità. In una ricognizione lungo un percorso trovammo delle gallerie non illuminate, molto pericolose. Andammo dalla direzione corsa a lamentarci. Il giorno dopo, in corsa, Michelotti aveva schierato in quelle gallerie i motociclisti con i fari accesi per illuminarle e renderle sicure”.
Sulla tappa delle Tre Cime, mi disse: “Sì, ci furono molte spinte. Qualche manata l’avevo presa anch’io, ma fui tra i più puliti. Per questo mi arrabbiai così tanto”. E di quella che lo vide trionfatore a Tirano, raccontò: “Quel giorno ero deciso a riprendermi la maglia. Partii una prima volta sui tornanti del Tonale, dove riuscii a staccare Anquetil. Poi, nella discesa verso Ponte di Legno, Jacques stava per rientrare. In fondo c’era il rifornimento. Io lo saltai e questo fece la differenza. Ripresi un po’ di vantaggio, continuai ad attaccare, lo staccai di nuovo. Forse sfruttando anche qualche scia. Capita a tutti i corridori di farlo. Ma dopo la discesa e il piano c’era l’Aprica. E lì non contano le scie, non c’è aiutino che conti: ci vogliono le gambe. Il mio successo l’ho costruito su quelle rampe. E al traguardo sono arrivato con più di 4 minuti di vantaggio su Anquetil”.
Così andarono le cose. Vinse il migliore. Con la manina invisibile e amica di Giovanni Michelotti, il duro ma giusto degli anni d’oro del nostro ciclismo.