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domenica 25 maggio 2025

Corsa Rosa, lo scoop postumo dell'ex organizzatore Giovanni Michelotti: "Quella volta che aiutai Gimondi a vincere il Giro"

Oggi, domenica 25 maggio 2025, sul Corriere della Sera c’è un’intervista molto bella di Aldo Cazzullo e Marco Bonarrigo a Eddy Mercks, nella quale il “cannibale” del ciclismo ricorda tra l’altro la rivalità ma anche l’amicizia con Felice Gimondi, le sue sfide epiche con i campioni di allora e il suo amore per l’Italia https://www.corriere.it/cronache/25_maggio_25/eddy-merckx-intervista-c6a9d76a-ef1f-49d2-92d9-e706f7663xlk.shtml?refresh_ce. Così mi è tornato in mente un inedito di quel periodo che anni fa mi svelò l’ex “deus ex machina” della Corsa Rosa, Giovanni Michelotti, per un quarto di secolo vice del direttore Vincenzo Torriani. L’avevo già pubblicato nel 2015, ma mi sembra ancora interessante. Uno scoop mai smentito, a Giro in corso.

L'arrivo vittorioso di Felice Gimondi alle Tre Cime di Lavaredo

“Adesso le racconto una storia che non ho mai raccontato a nessuno. Ma mi deve promettere di non scriverla finché io sono in vita, perché non voglio che il protagonista ne sia danneggiato”. Era la primavera 2012 quando Giovanni Michelotti, per un quarto di secolo vice di Vincenzo Torriani e “deus ex machina” del Giro d’Italia, mi raccontò questa storia e mi fece fare questa promessa. Giovanni se n’è andato nell’ottobre del 2014, e Felice Gimondi, il campione protagonista del racconto, ci ha lasciati il 16 agosto 2019. Quel segreto, che è un pezzo di storia del nostro ciclismo, si può dunque svelare.


Ero andato a trovare Michelotti a casa sua, a San Marino, per raccogliere materiale e testimonianze sul libro a cui stavo lavorando, “Gli intrighi di una Repubblica”, ambientato nel primo dopoguerra proprio sul Titano, quando quel piccolissimo Stato, poi diventato paradiso fiscale e simbolo del capitalistico più sfrenato, fu per dodici anni l’enclave del comunismo in Occidente. E per abbattere il governo socialcomunista che anche dopo la sconfitta del fronte popolare del 1948 continuava a vincere tutte le elezioni, fu addirittura organizzato dalla Cia e dal governo italiano un colpo di Stato. Michelotti aveva avuto un ruolo in quella storia. Da imprenditore e democristiano emigrato in America aveva ricevuto dalla Dc l’incarico di organizzare un volo charter per il rimpatrio dei sammarinesi finalizzato a vincere le elezioni del 1955. Da grande organizzatore qual era lo fece, portò un centinaio di sammarinesi degli States a votare sul Monte, ma anche quella volta vinsero i socialcomunisti e dopo nessuno voleva più pagare agli emigrati il viaggio di ritorno.

Nel ricordare i fatti di quella incredibile storia che tanto ricorda la saga di Peppone e Don Camillo, tra aneddoti e risate, Giovanni si era sciolto e aveva deciso di raccontarmi anche un episodio inedito del Giro d’Italia del 1967, il primo dei tre vinti da Felice Gimondi. È l’8 giugno 1967 e il campione da battere è il francese Jacques Anquetil, all’epoca trentatreenne e ormai a fine carriera. Gli emergenti sono Gimondi, 25 anni, e il ventenne fiammingo Eddy Merckx. E’ la 19esima delle 24 tappe previste e la maglia rosa è sulle spalle di Silvano Schiavon, discreto scalatore ma solo un comprimario del Giro. Si parte da Udine e si arriva alle Tre Cime di Lavaredo: tappa durissima con arrivo inedito, al termine di una salita molto impegnativa. La strada che conduce ai 2.320 metri del rifugio Auronzo è stretta, ripida e sterrata. Per di più quel giorno sulle Tre Cime nevica.

“I corridori faticavano a stare in equilibrio – racconta Michelotti - le migliaia di appassionati che si erano radunati lungo gli ultimi chilometri di quella salita si erano sentiti in dovere di spingerli più del solito, anche per evitare che scivolassero sul fondo fangoso e innevato. Quel giorno, d’accordo con prefetto di Belluno, avevo schierato un migliaio di alpini sul percorso. Stavano lì dalle 7 del mattino, per scaldarsi bevevano grappa, al pomeriggio erano quasi tutti ubriachi, anche loro si misero a spingere i ciclisti, se li buttavano da uno all’altro divertendosi come matti: un macello”.

Tutti gli atleti, chi più chi meno, beneficiano delle spinte. Tranne uno, il ventiduenne Vladimiro Panizza, scalatore puro, al suo primo anno da professionista che in quella bufera tenta la fuga per la sua prima vittoria, ma viene ripreso e superato a pochi chilometri dall’arrivo dai campioni in lotta per il primato. Al traguardo Gimondi precede Mercks e Motta, stacca il favorito Anquetil e si prende la maglia rosa. Panizza arriva stremato e in lacrime.

“Ma il mio amico e compagno di tante avventure, Sergio Zavoli, il mitico cronista Rai al Giro, sempre alla ricerca di argomenti di rilievo per il ‘Processo alla tappa’ che teneva incollati al teleschermo milioni di spettatori, trasformò le spinte ai campioni e le lacrime di Panizza nel caso del giorno, fino a convincere Torriani ad annullare la tappa. Io lo seppi quando la notizia dell’annullamento era già diventata ufficiale e ne fui molto contrariato. È vero, c’erano state spinte, ma non mi pareva giusto vanificare il gesto atletico di un corridore come Gimondi. E men che meno mi andava giù che quella decisione finisse per penalizzare l’italiano e premiare il francese”.

Gimondi è infuriato e minaccia di ritirarsi. “Dipendesse da me, domani non si parte; se mi obbligano farò il turista”, dichiara. La sua squadra, la Salvarani, lo convince a ripartire. Il giorno dopo, nella tappa da Cortina a Trento vinta da Adorni, la maglia rosa passa ad Anquetil. La tappa successiva, da Trento a Tirano, comprende altre due salite impegnative: il Tonale e l’Aprica. Michelotti, che ancora non ha digerito la decisione di due giorni prima, aspetta l’occasione buona per rendere giustizia a Gimondi. E l’occasione si presenta in quella terzultima tappa. Il campione bergamasco va subito all’attacco e stacca Anquetil sul Tonale. Nella discesa, però, il francese rientra. In fondo, a Ponte di Legno, c’è il rifornimento. Gimondi lo salta e riparte all’attacco, distanziando di qualche decina di metri il suo avversario.

“Quando vedo Felice allungare in fondo alla discesa del Tonale – racconta Michelotti – mando due motociclisti a fare blocco dietro, con l’ordine tassativo di non fare passare nessuno, nemmeno la macchina della Rai con Zavoli e la telecamera. Poi con l’ammiraglia affianco Gimondi nel gruppetto di testa e gli dico ‘dai che andiamo’. Lui è uno sveglio, capisce al volo e si mette in scia. Poi dico al mio fedele autista, Isidoro, il più bravo del Giro, l’unico che conosce le mie intenzioni: dai, accelera, se riusciamo mi vendico delle Tre Cime. L’abbiamo portato via così, Felice. Nel tratto in discesa fino agli 80-90 all’ora, sul piano a 50-55. Poi sulle rampe dell’Aprica lui ha fatto il resto, è arrivato al traguardo con più di quattro minuti di vantaggio, si è ripreso la maglia rosa e ha vinto il Giro. Io sono stato l’unico testimone di quel suo straordinario volo fino a Tirano. Nessuno ha potuto documentare l’aiutino. Nemmeno Zavoli riuscì a scoprirlo. Nel dopo tappa e nei giorni successivi si vociferava. Anche Sergio raccontò che qualcosa di strano era accaduto, ma se lo immaginò soltanto perché le immagini non le aveva. A distanza di anni, Raphael Geminiani, direttore sportivo di Anquetil, mi venne ad accusare apertamente di avere favorito Gimondi ai danni del suo corridore. Ma’Gem’ era un personaggio pittoresco, un gran chiacchierone, soprattutto dopo aver bevuto qualche bicchiere. Avevamo le stesse origini romagnole, era un amico, la protesta finì con un’altra bevuta e una pacca sulle spalle. Non l’ho mai confessato a nessuno quel che ho combinato quel giorno, e nemmeno Gimondi l’ha fatto. È stato l’unico gesto antisportivo della mia lunga carriera. Ma era sacrosanto, un atto di giusta riparazione a un campione che stava strameritando la sua prima vittoria al Giro”. Al traguardo finale di Milano Gimondi vince la Corsa Rosa con 3’36 su Franco Balmamion e 3’45 sul francese.

Dopo la morte di Michelotti, prima di pubblicare questa inedita pagina dell’epopea del Giro, chiamai Gimondi, il campione che è stato tra i pochi al mondo a vincere tutte e tre le grandi corse a tappe (Giro, Tour e Vuelta), vincitore del campionato del mondo nel 1973 e di numerose classiche, nonostante la concorrenza in quegli anni del “cannibale”, Eddy Mercks. Felice ricordava benissimo quei giorni al Giro e quella tappa. E non smentì la ricostruzione di Michelotti, un uomo che ricordava con grande affetto e stima: “Era un grande, un organizzatore nato – mi disse - un duro che sapeva ascoltare i corridori e imporre le regole giuste in corsa. Le faccio solo un esempio delle sue capacità. In una ricognizione lungo un percorso trovammo delle gallerie non illuminate, molto pericolose. Andammo dalla direzione corsa a lamentarci. Il giorno dopo, in corsa, Michelotti aveva schierato in quelle gallerie i motociclisti con i fari accesi per illuminarle e renderle sicure”.

Sulla tappa delle Tre Cime, mi disse: “Sì, ci furono molte spinte. Qualche manata l’avevo presa anch’io, ma fui tra i più puliti. Per questo mi arrabbiai così tanto”. E di quella che lo vide trionfatore a Tirano, raccontò: “Quel giorno ero deciso a riprendermi la maglia. Partii una prima volta sui tornanti del Tonale, dove riuscii a staccare Anquetil. Poi, nella discesa verso Ponte di Legno, Jacques stava per rientrare. In fondo c’era il rifornimento. Io lo saltai e questo fece la differenza. Ripresi un po’ di vantaggio, continuai ad attaccare, lo staccai di nuovo. Forse sfruttando anche qualche scia. Capita a tutti i corridori di farlo. Ma dopo la discesa e il piano c’era l’Aprica. E lì non contano le scie, non c’è aiutino che conti: ci vogliono le gambe. Il mio successo l’ho costruito su quelle rampe. E al traguardo sono arrivato con più di 4 minuti di vantaggio su Anquetil”.
Così andarono le cose. Vinse il migliore. Con la manina invisibile e amica di Giovanni Michelotti, il duro ma giusto degli anni d’oro del nostro ciclismo.

giovedì 6 marzo 2025

Trump, Putin, l'Ucraina e l'Europa senza più leader che sa solo pensare alla guerra

Abituati da ottant’anni a garantire fedeltà politica agli Usa in cambio della protezione Nato che ci assicurava sicurezza e pace, abbiamo seguito pedissequamente la linea Biden nella guerra per procura in Ucraina tra le due superpotenze nucleari. Abbiamo mandato quintalate di armi e soldi all’aggredito, prima con la motivazione sacrosanta che bisognava aiutare l’aggredito a difendersi dall’aggressore, poi, via via, arrivando a sostenere che l’obiettivo era sostenere Kiev fino alla caduta di Putin e alla “vittoria finale” contro Mosca. Abbiamo fatto di Zelensky, che ha messo al bando undici partiti di opposizione, soppresso la libertà di stampa e fatto approvare dal Parlamento una legge che vieta qualsiasi ipotesi di trattativa e mediazione con la Russia, il campione della democrazia e dei valori del Mondo Libero. Senza riuscire a mettere in campo, in questi tre anni di guerra, una sola vera iniziativa diplomatica per provare a far tacere le armi, trovare una soluzione politica al conflitto e riportare la pace in Europa.

Poi è arrivato il ciclone Trump ed è cambiato tutto. Alla Casa Bianca si è insediato un clan di esaltati e super miliardari che pensa di comprarsi Panama e la Groenlandia (trattative già in corso), annettersi il Canada come 51esimo stato a stelle e strisce, alzare un muro invalicabile col Messico, deportare due milioni di palestinesi per fare di Gaza la riviera dei ricchi, colonizzare Marte e nel frattempo impiantarci nel cervello un microchips per poter competere con l’intelligenza artificiale, dopo aver fatto un bel po’ di pulizia di immigrati, omosessuali, poveracci, minoranze e tutto ciò che è woke. Oligarchi in missione per conto di Dio, affaristi senza scrupoli che si sentono legittimati a comandare in nome del popolo bue che li ha votati, imperialisti che pensano di potersi spartire e dominare il mondo a loro piacimento, e che in quanto tali trattano solo con i loro pari, potenti o dittatori che siano, non con chi non ha le carte, i soldi o la forza politica, tecnologica e militare per abitare il Mondo di Sopra. Così, dal giorno alla notte, la Russia non è più il nemico, con Putin si possono fare buoni affari, così come con Netanyahu in Israele, con il principe bin Salman in Arabia Saudita, perfino con l’ex terrorista islamico al Jolani che ha preso il potere in Siria. Che sarà mai se Putin si riprende un po’ di quel che era suo, o se Netanyahu si prende Gaza, la Cisgiordania, un pezzo di Libano e di Siria per fare il grande stato di Israele dal fiume al mare come diceva la Bibbia? Non c’è più nessun Soldato Zelensky da salvare, e chissenefrega di quegli straccioni degli ucraini e dei palestinesi. In quanto all’Europa, la Guerra Fredda è finita, Trump e Putin sono pappa e ciccia, il “grande nemico” non è più la Russia ma la Cina. Gli europei la pensano diversamente, temono l’Orso Russo? Fatti loro. Gli Stati Uniti ora pensano ai propri interessi, America first, non offrono più protezione a chi non ha nemmeno finito di saldare le rate del mutuo della Seconda guerra mondiale e ha fatto l’Ue per fregare l’America sull’economia. Se vogliono la Nato se la devono pagare, e se vogliono continuare a fare affari con noi devono pagare dazio.


Bel quadretto, eh! Fatto sta che questa sorta di tardo imperialismo, o colonialismo di ritorno, ha demolito in un amen tutte le certezze dell’Europa e mandato in confusione tutti i leader degli “stati guida”. Oddio, l’Amico Americano non c’è più, l’Asse Transatlantico si sta dissolvendo, la battaglia tra il bene e il male non si sa più da che parte sta, e mo’ che si fa? Panico nell’Unione europea. L’Ucraina da frontiera della democrazia e della libertà sta diventando merce di scambio tra Usa e Russia, Zelensky e con lui l’Europa gli ostacoli alla trattativa di pace, coloro che si oppongono al cessate il fuoco e alla fine della guerra finché non ci sarà “una pace giusta”, che però nessuno sa spiegare qual è, dal momento che appare fuori dalla realtà che Kiev possa riprendersi la Crimea e il Donbass, o entrare nella Nato. Così se ne vedono e se ne sentono di tutti i colori. Il premier laburista Starmer che guida la reazione della Unione europea di cui l’Inghilterra non fa più parte, che pare rinvigorito e a suo agio nel nuovo scenario imperiale. Quello francese Macron, anatra zoppa della politica nel suo paese ma che si crede De Gaulle, offre generosamente agli europei la protezione della propria deterrenza nucleare, con i quali però è disposto a condividere solo i costi, non a mollare la valigetta. Entrambi, Starmer e Macron, che vorrebbero mandare le truppe sul confine ucraino, così, tanto per aumentare il casino e i rischi di Terza guerra mondiale. La presidente della Commissione europea, la baronessa Von der Leyen, che se ne esce con la proposta folle di un piano di riarmo europeo (si chiama proprio così, Rearm Europe) da 800 miliardi di euro l’anno, fuori dal patto di stabilità, destinato a impoverirci tutti, come se domani dovessimo entrare in guerra con la Russia. E proprio mentre la Russia si sta mettendo d’accordo con l’America. Con la Polonia e i Paesi Baltici che, se fosse per loro, marcerebbero già su Mosca guidati da Zelensky, e con la Germania del nuovo cancelliere Merz e della Grosse Koalition tra Cdu e Spd che vara un mega piano di riarmo da 200 miliardi di euro. Tutti armati fino ai denti, ma per difenderci da chi? Da Putin o da Trump? O da noi stessi europei? Dai nostri nazionalismi? Dalle destre estreme che governano in undici dei ventisette stati dell’Unione che, sotto sotto, tifano per Trump o stanno con Putin? Dalla Germania che riarma e torna a far paura? Dall’Inghilterra che vuol tornare imperiale? Dalla Francia che rispolvera la grandeur? In questo momento drammatico io spero che tra questa delirante classe dirigente europea ci sia qualcuno che rinsavisce, che capisca che non si può garantire la sicurezza con le armi in un’Europa dove già ci sono tre potenze che hanno migliaia di atomiche, che la strada giusta per la pace non è quella della forza ma quella del dialogo, dell’amicizia, della cooperazione internazionale. E spero che l’Italia si tiri fuori da questa follia.

giovedì 16 gennaio 2025

Bologna 2 agosto 1980, la Cassazione chiude il cerchio: strage eversiva di Stato, pensata e finanziata dalla P2, eseguita dai fascisti e coperta dai Servizi deviati

 

Con la condanna definitiva all’ergastolo di Gilberto Cavallini, confermata ieri dalla Corte di Cassazione, si chiude il cerchio che congiunge la verità giudiziaria alla verità storica sulla strage del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna. Gli ultimi processi agli esecutori e ai mandanti del più grave atto di terrorismo del dopoguerra hanno via via delineato con sempre maggiore chiarezza come si sia trattato di una strage fascista, politica e di Stato, eseguita dai terroristi neri, pensata e finanziata dalla P2 di Licio Gelli con la copertura dei Servizi segreti deviati per seminare terrore, destabilizzare la nostra democrazia e impedire così l’ascesa al potere del Partito comunista. Una strategia della tensione che trovava sponda, se non la regia, nell’”Amico Americano” e che aveva portato due anni prima al rapimento e all’assassinio di Aldo Moro. La sentenza di ieri conferma l’intero impianto accusatorio della magistratura inquirente, in sintonia con ciò che il Paese aveva già capito da tempo, nonostante i depistaggi e la perseverante campagna innocentista della destra post-fascista oggi al potere, a cominciare dalla Presidente del Consiglio e dal suo Cerchio magico. Ora manca solo la conferma in Cassazione dell’ergastolo a Paolo Bellini per chiudere quel cerchio, anche se mancano ancora diversi tasselli per avere piena verità e giustizia.


“Io so ma non ho le prove”, scriveva Pierpaolo Pasolini 50 anni fa, dopo le stragi fasciste di Milano (Piazza Fontana) e Brescia (Piazza della Loggia), all’inizio della strategia della tensione. “Sappiamo la verità e abbiamo le prove”, avevano invece scritto il 2 agosto scorso i familiari delle vittime nel manifesto del 44esimo anniversario della strage che provocò 85 morti e più di 200 feriti. Era stata da poco confermata nel processo d’appello la condanna all’ergastolo di Paolo Bellini, figlio di un ufficiale della Folgore, ex “primula nera” di Avanguardia Nazionale, coinvolto in diversi misteri d’Italia, ladro di opere d’arte e killer di ‘Ndrangheta, indagato per le stragi del 1993 e per l’attentato di Capaci, ritenuto “senza ombra di dubbio alcuno” tra i terroristi neri presenti alla stazione quel maledetto sabato, poco prima delle 10.25, quando la bomba esplose nella sala d’aspetto di seconda classe. Riconosciuto dalla moglie nel fotogramma di un filmato amatoriale e ritenuto dai giudici “il quinto uomo” dell’attentato, quello preposto “a trasportare, consegnare e collocare quantomeno parte dell'esplosivo", in ogni caso “a fornire un supporto materiale all'azione". Gli altri erano Giusva Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, tutti e tre condannati in via definitiva come esecutori materiali (e già da tempo in libertà) e il “quarto uomo”, Gilberto Cavallini, pure lui terrorista dei Nar con il compito di dare supporto logistico all’operazione, già condannato in primo e secondo grado all’ergastolo, considerato dai magistrati inquirenti “in contiguità con i Servizi deviati e con ambienti massonici cui pure è riconducibile la strage”.


Ieri la Corte di Cassazione ha stabilito che ci sia “la certezza assoluta” della sua colpevolezza per aver ospitato Mambro, Fioravanti e Ciavardini a casa sua, a Villorba di Treviso, il giorno prima della strage, aver procurato loro false patenti e documenti di identità, oltre all’auto per raggiungere Bologna e rientrare dopo la strage.

Tutti e cinque avevano piena consapevolezza della finalità di quell’azione e della strategia politica eversiva che l’ispirava. Altro che banda di “spontaneisti” e di “guerrieri romantici” che si muovevano in autonomia per sovvertire il sistema, come hanno sempre cercato di accreditarsi i terroristi condannati per la strage. I processi ai mandanti e ai depistatori hanno clamorosamente smentito la loro tesi. La verità giudiziaria, a lungo inseguita dai familiari delle vittime che ieri sono accorsi numerosi a Roma in attesa della sentenza, è un’altra: l'attentato del 2 agosto 1980 faceva parte di una precisa e condivisa strategia eversiva a cui parteciparono non solo i terroristi dei Nar (Fioravanti, Mambro, Ciavardini, Cavallini) ma anche altre formazioni dell'estrema destra dell'epoca (Ordine Nuovo, Terza Posizione, Avanguardia Nazionale), finanziate dai soldi distratti dal Banco Ambrosiano da Licio Gelli e Umberto Ortolani e coperte dai Servizi segreti deviati, con il contributo del capo degli ufficio Affari Riservati del Viminale, Federico Umberto D'Amato e del giornalista del Msi, Mario Tedeschi.

Tutti perfettamente consapevoli di quel che si andava a fare a Bologna e delle finalità della strategia della tensione. È scritto nelle motivazioni della condanna all’ergastolo di Cavallini: “L’incontro dei coimputati (Fioravanti, Mambro, Ciavardini e Cavallini) la sera del 31 luglio e le successive condotte unitariamente tenute sono la riprova di una meticolosa preparazione di un evento che li accomunava”. E poiché Cavallini “rivestiva un ruolo apicale” nei Nar, “il gruppo non avrebbe mai aderito (a commettere l’attentato) senza il suo pieno consenso e la sua diretta partecipazione”. Tutti sicuri della copertura dei Servizi, che hanno sempre lavorato in tutti questi anni per depistare le indagini, e della destra ex missina impegnata ad accreditare altre fantomatiche piste (la più gettonata è stata “la pista palestinese”) e a negare la verità giudiziaria difendendo ad oltranza, anche dopo le condanne definitive, i responsabili di quell’orribile crimine. Chissà se anche dopo la sentenza di ieri della Cassazione - che rende giustizia ai famigliari delle vittime, a Bologna e alla Repubblica italiana nata dalla Costituzione antifascista – la premier Dio, Patria e Famiglia continuerà a sostenere l’innocenza dei suoi ex camerati e a negare l’offesa sanguinaria che con la strage è stata fatta a quella Nazione che un giorno sì e l’altro pure dice di voler difendere.

giovedì 2 gennaio 2025

L'anno che verrà, il mio oroscopo politico del 2025 mese per mese. Gennaio: Usa, il mondo nuovo degli psicopatici al potere

Qualcuno deve aver pensato, se il mondo è impazzito tanto vale consegnarlo ai matti. Così gli americani, che sono sempre avanti, hanno mandato due psicopatici alla Casa Bianca. Ma mica matti qualunque: matti di successo. Uno, Donald Trump, l'immobiliarista miliardario, spregiudicato e manipolatore che ammira i dittatori e che, secondo gli psicologi, soffre di “culto della personalità, narcisismo maligno, instabilità emotiva, comportamenti anti-sociali, paranoia, sadismo, mancanza di senso etico, misoginia, razzismo”. L’altro, Elon Musk, il suprematista bianco  visionario e molto "fumato" venuto dal Sudafrica, padre dell’auto elettrica Tesla, delle reti satellitari e aerospaziali SpaceX e Starlin, e del social X, ex Twitter, è attualmente l’uomo più ricco del mondo con un patrimonio di 350 miliardi di dollari. Un moderno Dottor Stranamore che per salvare l’umanità vuole impiantarci una Tesla nella testa per rendere i nostri cervelli competitivi con l’intelligenza artificiale, prima di trasferirci tutti su Marte. Chi sia il più suonato dei due gli psicologi non l’hanno ancora stabilito.

Tranquilli! Donald Trump, il primo presidente pluripregiudicato d’America dichiarato colpevole di aggressione sessuale, corruzione, diffamazione, frode e di un’altra trentina di reati, il 20 gennaio si insedierà al comando mandando al mondo e ai catastrofisti di turno messaggi rassicuranti. Per far tornare grandi gli States (Make America Great Again), all’inizio si limiterà a incoraggiare Netanyahu a “finire il lavoro” con i palestinesi e a mandare i saluti del suo “grande amico” Putin a Zelensky, per il quale ha già pronto un ruolo da conduttore e capo comico su Fox Tv. Poi si comprerà la Groenlandia e si annetterà il Canada e il Canale di Panama. Per deportare 25 milioni di immigrati clandestini, azzerare la lotta al cambiamento climatico e dichiarare guerra alla Cina avrà bisogno di un po’ più di tempo. Prima deve regolare i conti con la scienza che ha fatto dell’inutile allarmismo sul Covid, uscire dall’Organizzazione mondiale della sanità, tagliare i fondi alle scuole che insegnano “teorie critiche sulla razza” e alla cultura woke che promuove “la follia transgender”. Userà invece toni concilianti con l’Europa: “Se acquisteranno il nostro petrolio e il nostro gas su larga scala e si pagheranno per intero la Nato, faremo i buoni coi dazi e rimarremo buoni amici”.

Alla Casa Bianca e nel mondo, tuttavia, resta una certa preoccupazione. Prima di tutto perché non si è ancora capito chi dei due comanderà davvero. In secondo luogo, perché le ambizioni universali dell’uomo più ricco del pianeta non sembrano proprio in sintonia con l’America first di Trump. Le domande che tutti si pongono sono: quello tra Donald e Elon sarà vero amore? La nuova America sarà la sede terrena del regno di Trump o il punto di partenza per l’impero galattico di Musk? Di certo i due sono accomunati dal bisogno di superare i rispettivi traumi infantili (sono entrambi figli di padri-padrone, a loro volta un po’ scocomerati) e le loro debolezze umane: puttaniere acclarato Donald, procreatore compulsivo Elon. E da leader della moderna destra, sono uniti tra loro (e con l'amica Meloni) dall’amore per Dio, Patria e Famiglia. Soprattutto per la famiglia tradizionale. Trump, infatti, si è sposato tre volte, ha avuto cinque figli da tre madri diverse, una infinità di ex fidanzate e amanti, e, ciò nonostante, non è riuscito a togliersi il vizietto di aggredire le commesse nei camerini e di farsi le pornostar pagandola con i soldi della campagna elettorale.
Musk, convinto che filiare tanto significhi salvare l’umanità, di figli ne ha addirittura dodici, di cui alcuni nati con la fecondazione in vitro o con l’utero in affitto e uno che ha cambiato sesso, ha preso il cognome della madre e non vuole più essere legato in alcun modo e in alcuna forma al padre biologico. Per questo Elon, abbandonato dalla figlia trans che lo considera “una minaccia per l’esistenza dell’umanità”, ha lanciato la sua crociata per combattere “il virus della cultura woke che sta distruggendo un sacco di ragazzini”. Perché pensa che se il demone dell’Intelligenza artificiale e quello del wokismo dovessero accoppiarsi, si genererebbe una creatura spaventosa, un “mostrum”, anzi, tanti “mostrum” con la testa pazza di suo padre Errol e il corpo transgender della figlia Vivian Jenna.

Nell’America di Trump, questo moderno Dottor Stranamore pensa di guadagnare il tempo che gli serve per impiantare le prime colonie su Marte, i microchips per aumentare la potenza cognitiva dei nostri cervelli affinché possano interfacciarsi con le macchine dell’IA, e per salvare l’umanità dall’Anticristo estirpando il morbo del wokismo. Nel tempo perso si dedicherà al suo ruolo di capo del Doge, il Dipartimento per l’efficienza del governo, una sorta di tribunale del popolo voluto per sfoltire la burocrazia americana e renderla più efficiente. Ma tranquilli, ci andrà piano: ha annunciato che comincerà con il taglio di due trilioni di dollari, circa il 30% della spesa totale del paese. Così lui potrà continuare a privatizzare lo Spazio, sostituirsi alla Nasa, vendere ai migliori offerenti le proprie tecnologie, allargare il campo di influenza delle fake news sulla sua piattaforma social X. In attesa di creare, infine, quel mondo nuovo che si ispira alle sue letture giovanili di Asimov e Tolkien, dove l’anarco-capitalismo marziano di Musk sembra saldarsi con il social nazionalismo imperiale di Putin, Kim Jong Sun e forse perfino col comunismo capitalista di Xi Jinping. Sempre con un uomo solo al comando, s'intende. Quale dei due non è ancora dato sapere.

Hanno detto:

Trump: “Putin e Kim Jong Sun sono leader al top della forma: duri, intelligenti, cattivi e protettivi nei confronti del loro Paese”.

Trump: “E’ sempre un grande onore ricevere complimenti da un uomo così rispettato nel suo paese e oltre come Vladimir Putin”.

Musk: “Zelensky è il più grande venditore e il più grande campione di furti della storia. Ogni volta che viene qui se ne va con 60 miliardi di dollari”.

Musk: “Gli immigrati stanno avvelenando il sangue del nostro paese”.

Trump: “A New York nevica e si gela, il riscaldamento globale ci farà comodo”.

Trump (2020, prima presidenza): “Stiamo testando iniezioni di raggi ultravioletti, disinfettanti e candeggina per vedere se uccidono il virus. Il Covid se ne andrà via in pochi mesi senza vaccino".

(1, continua)

sabato 21 dicembre 2024

"Verità, la partigiana che visse due volte", piccola cronaca di una grande emozione


Lei, Nunziatina, quasi 99 anni, e loro, Eleonora, Emma, Fatu, Ginevra, Giorgio, Manuel, che di anni ne hanno 19. Ottant'anni di differenza e non sentirli. Coetanei nell'avventura da raccontare. Lei aveva 18 anni quando la fucilarono. Loro avevano la stessa età quando hanno cominciato a lavorare a questa storia. Il progetto un po' pazzo di realizzare, da studenti del Liceo Artistico nell'anno della maturità, una graphic novel sulla "ragazza ribelle" sopravvissuta all'esecuzione fascista e diventata icona delle donne nella Resistenza.

Non so quanti di loro, all'inizio, abbiano davvero pensato di poter portare a termine questo lavoro. Quanto ne sapessero delle tragedie del Novecento, di fascisti e partigiani, della lotta di Liberazione. Di sicuro ci ha creduto la loro prof, Monica Liverani, che anche dopo il diploma ha continuato a stimolarli, a riunirli, a convincerli che si poteva fare. E i ragazzi l'hanno seguita. C'era già chi lavorava, chi aveva cominciato l'Università o il corso professionale, chi doveva prendere la patente. Sei vite diverse e diciotto anni da spendere come si spendono a quell’età. Ma non si sono né scoraggiati né persi. E quando quella pazza idea è stata "sposata" anche dalle istituzioni nella persona del presidente del consiglio comunale Niccolò Bosi ed è entrata nel programma Concittadini della Regione diventando un progetto editoriale, hanno trovato il tempo e il modo, in mezzo ai loro casini, di impegnarsi a finirla. 

Ci sono riusciti. Il fumetto, "Verità, la partigiana che visse due volte", è stampato. Ed è bellissimo. Un lavoro curato, difficile, pregevole, di qualità, che ora ha anche un editore interessato a far proseguire dalla prossima primavera, nell'Ottantesimo della Liberazione, il viaggio della vicenda umana e politica di Annunziata Verità. Per portarlo nelle biblioteche e nelle librerie, per raggiungere con il linguaggio giovane e ammaliante del fumetto altre scuole, per far scoprire ad altri diciottenni cos’è stata la dittatura fascista, la guerra, la  Resistenza, la sanguinosa conquista della libertà e la democrazia da cui è nata la Costituzione più bella del mondo. Una Costituzione basata sull'antifascismo, su cui la destra al potere ha giurato ma che vorrebbe cancellare, riscrivendo la storia.

 I “ragazzi del fumetto” e Nunziatina sono stati i protagonisti della presentazione della loro opera agli studenti di oggi del Liceo Artistico e alla città. Coetanei per un giorno. 

È stato emozionante seguire il loro viaggio a ritroso nel tempo, scoprire la loro curiosità, stupirsi del loro impegno, della creatività e della bravura che ci hanno messo, per come hanno rappresentato con i loro disegni e le loro tavole una storia così lontana e allo stesso tempo ancora così vicina. 

Ed è stato commovente vedere “la ragazza ribelle” in prima fila con il libro in mano, osservarla mentre sfogliava, anche lei incuriosita, quelle pagine, per scoprire come l'avevano raccontata e disegnata. Con lei, nella copertina, giovane in bicicletta che pedala verso la salvezza e la libertà per quei monti della collina faentina, nello sfondo di un cielo blu e stellato. 

Con l'Auditorium del Liceo classico affollato di ragazzi e di diversamente giovani, con gli studenti di oggi dell'Artistico curiosi di sfogliare il fumetto, e gli autori impegnati a dispensare firme e dediche. Ne hanno fatte anche a me. E sono molto belle. Sì, proprio una bella mattina.  Con l'auspicio che questo lavoro, così singolare nella nostra Scuola e così straordinario in questo nostro Paese dalla memoria corta, possa essere diffuso, imitato e replicato.





 







mercoledì 18 dicembre 2024

L'incredibile storia di Annunziata Verità, "La ragazza ribelle" sopravvissuta alla fucilazione, è diventata un fumetto. A raccontarla e renderla più avventurosa sono i ragazzi del Liceo Artistico di Faenza

La storia di Annunziata Verità, "Nunziatina", la partigiana faentina sopravvissuta a 18 anni alla fucilazione fascista e figura simbolo del ruolo delle donne nella Resistenza, è una storia potente che non può non colpire chi la incontra. Per questo, credo, il mio romanzo “la ragazza ribelle” (Cartabianca) che a quella storia si ispira, dopo cinque anni dall’uscita continua a girare l’Italia (tre ristampe, presentazioni, incontri nelle scuole, un programma televisivo nazionale, uno spettacolo teatrale). Ma che potesse anche conquistare l’interesse e stimolare la creatività di un gruppo di ragazzi del liceo al punto da portarli a realizzare una graphic novel collettiva, non l’avrei mai potuto immaginare. Invece anche quella pazza idea è diventata realtà, l’ultima e più inaspettata delle sorprese di un fantastico viaggio.

I ragazzi sono quelli della V^ BA del Liceo Artistico Torricelli-Ballardini di Faenza, una delle scuole più antiche d’Italia. Si chiamano Eleonora, Ginevra, Fatou, Manuel, Ilaria, Giorgio, Emma. La loro insegnante, Monica Liverani, due anni fa aveva portato in classe “La ragazza ribelle” come libro di lettura autonoma, proponendo poi a chi l’aveva letto di raccontare quella storia a fumetti. Un discreto gruppo ha risposto con entusiasmo. Così la prof mi ha contattato chiedendomi la disponibilità a collaborare al progetto. Cosa che ho fatto con grande piacere accompagnando gli studenti a conoscere Nunziatina, nei luoghi dove tutto accadde e collaborando alla sceneggiatura. I ragazzi hanno ascoltato, osservato, approfondito, poi hanno cominciato a raccontare a modo loro l'epopea di Nunziatina, in modo dettagliato, curato nei particolari, con i disegni, i colori, i dialoghi, le tavole.

All’inizio la vedevo solo come una pregevole e insolita iniziativa – ragazzi di 18-19 anni che lavorano a scuola su una storia di Resistenza, ma quando mai? – tutt’al più come una originale esercitazione didattica. Ma più gli studenti entravano in quella storia e liberavano la loro creatività, più quel lavoro prendeva la forma e la forza di un vero e proprio progetto editoriale. Però l’anno scolastico volgeva al termine, li aspettava l’impegnativa prova della maturità e dopo per ciascuno di loro una nuova strada da intraprendere: chi al lavoro, chi lo stage o il corso di specializzazione, chi l’università. Pensavo finisse lì e sarebbe stata già tanta roba. Invece no. Dopo la maturità i ragazzi sempre stimolati dalla prof hanno continuato a incontrarsi nel tempo libero, a produrre nuove idee, aggiungere particolari, sceneggiare, realizzare tavole, fino a produrre un romanzo a fumetti di oltre centocinquanta pagine: una graphic novel in piena regola, a mio parere bellissima. A quel punto non poteva rimanere un lavoro scolastico, meritava di diventare un’opera artistica e di essere pubblicata.


Ne ho parlato con il presidente del Consiglio comunale di Faenza, Niccolò Bosi, la prof Liverani ha cominciato a invitarlo ai nostri incontri sugli stati di avanzamento del fumetto, lui ha visto l’impegno dei ragazzi, constatato la qualità del loro lavoro, se n’è innamorato, l’ha fatto proprio, l’ha proposto all'Assemblea Legislativa dell'Emilia-Romagna che con i fondi del progetto "ConCittadini" ha provveduto alla prima stampa della graphic novel. La preview ci sarà sabato 21 a Faenza, (Auditorium del Palazzo degli Studi, via Santa Maria dell'Angelo 1, ore 10) in un incontro con le classi del Liceo Artistico aperto alla cittadinanza. Alla presentazione parteciperà anche "Nunziatina", oggi 98enne in buona salute, che per la controcopertina del volume ha scritto: "Guarda che girano ancora per l'Italia. I fascisti ci sono ancora. E se dovessero tornare...spero di morire prima. Non voglio più avere niente a che fare con quella gente lì". Sono certo che sarà un incontro emozionante.


Nei prossimi mesi, poi, il fumetto dovrebbe trovare un editore vero, avere un suo prezzo di copertina e il codice Isbn per poter arrivare nelle biblioteche e nelle librerie, facendo continuare così l'avventuroso viaggio della ragazza ribelle in questa inedita forma artistica. Un'opera pregevole, di qualità, che speso possa raggiungere soprattutto i giovani lettori, con l'auspicio che possano divorarsi d’un fiato questo romanzo realizzato da loro coetanei come noi boomer divoravamo i Tex Willer, i Diabolik, i Dylan Dog. E che possa emozionarli come ha emozionato me seguire il lavoro di quei meravigliosi ragazzi, vederli appassionarsi alla storia vera di Annunziata Verità, curiosi di riscoprire fatti di ottant’anni fa, la nostra Resistenza, dov’è nata la Costituzione più bella del mondo. Una cosa assai rara nelle nostre scuole superiori, in questa Italia dalla memoria corta dove molti tendono a dimenticare la storia e la destra al potere prova anche a riscriverla.

giovedì 5 dicembre 2024

Ravenna liberata e quei suoi monumenti gioiello salvati dai partigiani di "Bulow"

La liberazione di Ravenna, di cui si è celebrato il 4 dicembre l’ottantesimo anniversario, è anche una delle più belle storie della Resistenza. Una storia che nella città romagnola è legata indissolubilmente alla figura di Arrigo Boldrini, il leggendario comandante “Bulow” inventore della lotta partigiana in pianura, nelle valli. A guida della 28esima Brigata Garibaldi, “Bulow” ottenne, per la prima volta, il riconoscimento militare degli Alleati come forza di liberazione, contribuendo poi in maniera determinante a cacciare i tedeschi e a salvare l’immenso patrimonio monumentale e artistico della città bizantina. Boldrini è morto nel 2008, a 92 anni. Qualche anno prima, quando era ancora in salute, lo andai a trovare e gli feci una lunga intervista su quei fatti che inserii nel mio primo libro, “Arriverà quel giorno…”, pubblicato nel 2000 da Pendragon. Ne riporto qui alcuni stralci.

“…Un esponente del Pci di Cattolica d’intesa con gli alleati era sbarcato a nord di Ravenna. Lo incontrammo al comando del distaccamento Terzo Lori, nelle valli. Ci informò sugli ultimi avvenimenti e ci disse che le brigate partigiane a Macerata e Pesaro erano state disarmate dagli alleati, dopo la liberazione delle città. Non potevamo permettere che ciò avvenisse anche in Romagna. Era una questione fondamentale per noi. Il riconoscimento del movimento della Resistenza come parte integrante dell’esercito di liberazione diventava in quei mesi importantissimo per il riscatto dell’Italia dal nazifascismo e per il futuro politico del Paese. Discutemmo perciò di quali iniziative prendere per ottenerlo. Io nascosi la notizia della smobilitazione ai miei partigiani. Solo i capi erano avvertiti…. Presentammo anche un piano per la liberazione di Ravenna da sottoporre agli alleati. Prevedeva la salvaguardia della città e in particolare dei suoi monumenti dai bombardamenti. I partigiani dovevano essere in prima linea, pronti a guidare l’insurrezione popolare a Ravenna e nella Bassa Romagna per aprire la strada a una rapida avanzata dell’VIII Armata verso Nord, fino al Po.

…In novembre ci fu il nostro primo contatto con i vertici degli Alleati. Cervia era stata liberata il 22 ottobre. In città erano entrati per primi partigiani e canadesi. Decidemmo di organizzare un viaggio via mare, aggirando le linee tedesche, per raggiungere il comando dell’VIII Armata. Partimmo la sera del 18 novembre con una barca a remi. Eravamo in nove, sette partigiani e due piloti inglesi fuggiti dai campi di concentramento e rifugiati in Romagna. Per vincere il freddo e la paura portammo con noi una damigiana di vino. I tedeschi non ci scoprirono, sbarcammo a Milano Marittima senza nessun incidente. Da lì gli alleati mi portarono a Viserba di Rimini dove incontrai il capitano americano Peter Thiele, ufficiali inglesi e canadesi. Li informai della situazione militare nel ravennate e dello stato delle formazioni partigiane, gli illustrai il piano per liberare la città. Parlammo a lungo di tutto. Discutemmo di come salvare le basiliche - a cominciare da quella di Classe - e il grande patrimonio artistico di Ravenna. Cominciammo a conoscerci e a rispettarci a vicenda. Ma gli alleati rimanevano comunque diffidenti verso noi partigiani, volevano vederci chiaro, decisero di mandare un ufficiale per rendersi conto sul campo della situazione e della consistenza delle nostre forze. Ritornammo alla base portando con noi il capitano canadese Dennis Healy. Egli rimase molto impressionato della nostra organizzazione e capacità militare. Partecipò anche a una nostra azione contro i tedeschi. Il suo rapporto al comando ebbe evidentemente un peso. Il 29 novembre ci comunicarono ufficialmente via radio che saremmo passati alle dipendenze operative del Primo Corpo d’Armata canadese. Il messaggio diceva: ‘I partigiani sono considerati truppe di occupazione da Mezzano alla spiaggia e fino alle Valli di Comacchio’. Lo rileggemmo più volte, quasi increduli. Il riconoscimento che avevamo tanto cercato era arrivato.

…Il messaggio radio per la liberazione della città arrivò nella notte tra il 2 e il 3 dicembre 1944. Diceva soltanto: ‘Ora zero’. Era il segnale stabilito per attaccare. All’alba del 4 scattarono le operazioni. Noi riuscimmo a mettere in campo tra gli ottocento e i mille partigiani nella zona attorno a Ravenna. La parola d’ordine era ‘Teodora’. Alla sera Ravenna era già libera. Liberata dai partigiani. Non ci fu bisogno di bombardamenti. Anche i monumenti, le basiliche bizantine con i loro splendidi mosaici, l’enorme patrimonio artistico della città, erano salvi. Salvati dai partigiani..”.


Per prima fu salvata Santa Apollinare in Classe. Sul campanile della basilica i tedeschi avevano piazzato una postazione d’artiglieria. Gli alleati inizialmente ne avevano previsto l’abbattimento per aprirsi la strada verso Ravenna. Ma il colonnello inglese di origine russa, Wladimir Popsky, a capo di un gruppo d’assalto, fu informato dai partigiani di “Bulow” dell’importanza di quell’antico monumento e convinto a chiedere il rinvio di 24 ore del bombardamento. Poi assieme agli uomini del distaccamento partigiano ‘Settimio Garavini’ guidati da Ateo Minghetti, nome di battaglia ‘Régan’, organizzò un’azione per liberare la basilica dai tedeschi senza distruggerla. L’operazione si svolse all’alba del 19 novembre ed ebbe pieno successo. La stessa cosa accadde due settimane dopo nell’ex capitale dell’Impero Romano d’Occidente, con i monumenti - da San Vitale a Galla Placidia, al Mausoleo di Teodorico - che oggi sono riconosciuti dall’Unesco come patrimonio dell’umanità. Soltanto tre chiese vennero colpite dai bombardamenti alleati: San Giovanni Evangelista e Sant’Apollinare Nuovo, che si trovano nei pressi della Stazione ferroviaria, e Santa Maria di Porto Fuori, in prossimità della zona portuale.