giovedì 30 ottobre 2025

Italiani sempre più poveri ma il governo guarda altrove. E se invece di parlare di riarmo, ponte dello Stretto e separazione delle carriere si occupasse dei salari?

 

Tra le grandi questioni che angosciano i cittadini del mondo in questi anni bui - le guerre, i disastri causati dai cambiamenti climatici, la povertà e le diseguaglianze crescenti, la paura del futuro – ce n’è una che è peculiarmente italiana nel contesto europeo: quella dei salari. Troppo bassi, sempre più bassi, per molti ormai insufficienti a vivere decorosamente, tanto da costringere quote crescenti di famiglie non solo dei lavori più poveri ma anche del fu ceto medio, a rinunciare a beni, servizi e attività considerati indispensabili per avere una vita dignitosa: l’accessibilità alla casa, all’istruzione e alle cure, la possibilità di fare viaggi, di andare a un concerto, a teatro o al cinema, di iscrivere i figli a una attività sportiva o ricreativa. Solamente il rito dell’aperitivo e del mangiare fuori sembra strenuamente resistere.

Una situazione di crisi e depressione crescente in cui lo scopo principale della società sembra diventato quello di far soldi: dall’industria che al supermercato fa arrivare confezioni con il 20% di prodotto in meno allo stesso prezzo di prima, al proprietario immobiliare che ti affitta un sottoscala a mille euro al mese; dallo specialista che ti chiede un rene per una visita o un intervento, all’elettricista o all’idraulico che spara cifre da capogiro per cambiare una presa o un rubinetto, a meno che non lo paghi in nero; fino al dehor del centro che ti fa pagare venti euro un tagliere coi i salumi della coop e 8-10 euro un calice di vino o uno spritz. Ovunque ti giri trovi gente che cerca di cavare sangue dalle rape, e le rape siamo noi, cittadini e consumatori.

Eppure, in questo scenario triste. gran parte della politica, il nostro governo, parla d’altro: di riarmo, di separazione delle carriere dei magistrati, del ponte sullo Stretto. E quando parla d’economia, lo fa per dire che va tutto bene madama la marchesa: il Pil, lo spread, l’occupazione, i conti. Ma dove vivono? Che Paese raccontano, questi?

L’ultimo aggiornamento sui salari è di ieri e l’ha fornito l’Istat. Nel terzo trimestre del 2025 i salari reali degli italiani sono diminuiti dell’8,8% rispetto al gennaio 2021. Le retribuzioni aumentano nominalmente ma non tengono il passo dell’inflazione e del caro vita, così il potere d’acquisto continua a calare. L’Italia si conferma pecora nera in Europa. Il nostro stipendio medio lordo mensile, secondo Ocse e Eurostat, nel 2023 era di circa 2.729 euro, contro una media europea di 3.155 euro. I lavoratori italiani guadagnavano dunque, in media, 429 euro in meno al mese rispetto a un lavoratore europeo, pari a oltre 5.000 euro all’anno. E dal 2023 a oggi il divario si è ulteriormente allargatro. Le ragioni di questo divario sono molte, a cominciare dallo scandaloso ritardo con cui vengono solitamente rinnovati i contratti collettivi di lavoro. Con il governo Meloni, il ritardo dei rinnovi è aumentato in media da 18,3 a 27,9 mesi. Il contratto dei dipendenti pubblici del triennio 2019-2021, per dire, è stato rinnovato solo a dicembre 2022 e i soldi in busta paga sono arrivati quattro anni dopo l’inizio del periodo che avrebbe dovuto coprire. E anche il contratto in vigore, scaduto nel 2024, non è stato ancora rinnovato e nemmeno il nuovo è alle viste. Nel privato va ancora peggio, ci sono contratti scaduti da sei-sette anni e anche più non ancora rinnovati. Ritardi che, come capisce anche un bambino, contribuiscono a far perdere valore reale alle retribuzioni, ai soldi che abbiamo in tasca.


Salari e stipendi dovrebbero garantisce al lavoratore la copertura dei bisogni primari e lasciare un minimo di margine per gli imprevisti e le spese extra. In Italia per una larga fascia di lavoro dipendente da tempo non è più così. Negli ultimi trent'anni le retribuzioni reali nel nostro paese invece di crescere sono calate. La diminuzione del nostro potere d'acquisto si è accentuata a partire dal 2008, e ha avuto un ulteriore peggioramento soprattutto nel biennio 2022-2023 a causa dell'inflazione. Questo senza considerare il reddito dei milioni di persone che hanno un lavoro sottopagato e in particolare quello degli immigrati, che guadagnano in media il 26,3% in meno dei lavoratori italiani.

Andando a ritroso, sempre secondo l’Ocse, le retribuzioni medie degli italiani rispetto al 1990, in termini reali, sono rimaste sostanzialmente ferme (+ 0,36%). A differenza del resto d’Europa dove le retribuzioni medie sono state quasi ovunque in costante crescita, come si può vedere dal grafico d'apertura. Nei paesi baltici salari e stipendi sono addirittura triplicati negli ultimi 25 anni, e in diversi paesi dell’Europa centrale sono raddoppiati. In Francia e Germania sono cresciuti più della media Ocse, che è del 33%; in Svezia del 72%, in Irlanda dell’82%. Nella “povera” Spagna il salario minimo è cresciuto del 61% tra il 2018 e oggi, passando da 735 a 1.184 euro, mentre quello medio è aumentato del 4% negli ultimi due anni. In Italia invece siamo rimasti al palo, il governo ha bocciato il salario minimo proposto dall'opposizione, intanto proliferano i contratti a termine, il lavoro precario e sottopagato, lo Stato e gli Industriali non rinnovano i contratti, così un operaio o un impiegato guadagna mediamente dai quattro ai cinquemila euro in meno all’anno rispetto a quelli degli altri paesi europei più sviluppati.

L’ultimo "Dataroom" di Milena Gabanelli ha fatto qualche esempio concreto sulla perdita di valore dal 2019 a oggi di salari e stipendi. Un bidello con oltre 35 anni di carriera sei anni fa guadagnava 1.918 euro lordi al mese, con il rinnovo del contratto triennale 2019-2021 è arrivato a 2.013 euro e nel 2024 a 2.094 euro, con un aumento lordo complessivo del 9,17%. Ma nello stesso periodo l’inflazione è stata del 20,6%, e quindi ha perso più del 10% in valore reale. Per mantenere invariato il potere d’acquisto del reddito netto avrebbe dovuto guadagnare 3.269 euro in più all’anno. Le misure fiscali decise dai governi hanno ridotto parzialmente il danno di 1.194 euro, tra taglio del cuneo e revisione delle aliquote Irpef. La perdita definitiva dal 2019 a oggi è quindi di 1.756 euro l’anno.
Un prof di scuola superiore con 28-34 anni di carriera partiva nel 2019 da 2.885 euro lordi mensili, è salita a 3.029 euro nel 2021 e a 3.144 nel 2024. L’aumento lordo è stato dell’8,98%, la perdita di potere d’acquisto di 3.754 euro annui. Con i benefici fiscali già descritti la perdita di potere d'acquisto a oggi è di 2.307 euro l’anno.

Un commesso di IV livello parte nel 2019 da 1.584 euro lordi al mese e sale a 1.802 nel novembre 2025, con un aumento del 13,77%. Con l’inflazione al 20,6% il suo potere d’acquisto si è ridotto di 2.458 euro l’anno, danno sceso poi a 993 euro l'anno con il taglio del cuneo e la riduzione Irpef.
Un responsabile vendite (quadro) che nel 2019 guadagnava 2.620 euro lordi mensili, a novembre 2025 raggiunge i 2.933 euro, con un aumento dell’11,94%, ma l’inflazione gliene mangia 3.129, che con le misure governative scendono a 1.683 euro l’anno.

In tutti i casi singoli analizzati, dunque, i salari reali si sono ridotti perché i datori di lavoro, pubblici e privati, non adeguano le retribuzioni al ritmo dell’inflazione, i rinnovi contrattuali arrivano con anni di ritardo e gli aumenti non riescono a compensare la crescita dei prezzi. "Il potere d’acquisto - ci dice il Dataroom - non si salvaguarda con la riduzione delle tasse ma con il rinnovo dei contratti di lavoro e gli aumenti salariali". Ma nessuno al governo sembra preoccuparsi di questo. Loro fanno i sovranisti, nell'interesse della Nazione ma col culo degli altri.

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