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martedì 9 settembre 2014

La farsa delle Province e le riforme che non convincono del governo Renzi

In principio dovevano essere una al mese. Adesso siamo al “passo dopo passo”. Le riforme che dovrebbero far “cambiare verso” all’Italia avanzano a fatica. E ancor meno convincono. Dall’Italicum al Senato, dalle Province al Jobs Act, l’impressione rimane quella di un disegno riformatore confuso, di una direzione di marcia a zigzag e di un approdo tutt’altro che sicuro.

La farsa delle Province.
L’abolizione delle Province, che doveva essere la prima riforma simbolo del taglio dei costi della politica, è diventata una farsa. La “legge Delrio” mirava a svuotarne le funzioni. La “riforma Boschi” approvata in prima lettura al Senato le cancella dalla Costituzione (articolo 114 è così modificato: “La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato”). Ma i decreti attuativi della legge Delrio – attesi prima a inizio luglio, poi entro agosto, ora promessi per settembre - ancora non ci sono, mentre l’iter della modifica costituzionale ha davanti a sé almeno quattro letture parlamentari.

Nel frattempo che succede? Che le Province, come l’Araba Fenice, risorgono dalle loro ceneri. Entro il 12 ottobre un corpo elettorale non più formato dai cittadini bensì dai sindaci e dai consiglieri comunali di tutt’Italia dovranno eleggere i consigli e i presidenti delle 86 Province (su 107) giunte a fine mandato i nuovi consigli delle Città metropolitane, che saranno 10 e saranno guidate, per legge, dai sindaci dei rispettivi Comuni capoluogo. Le Province diventeranno enti di secondo grado ma non scompariranno. Manterranno, per ora, gli stessi apparati e le stesse competenze di prima, anche se con meno risorse per curare strade, scuole, trasporti e ambiente (meno 30% di trasferimenti statali nel 2014). E una volta completata la riforma costituzionale, probabilmente cambieranno nome.

L'Italicum "sudamericano" che piace solo a Berlusconi. 
La riforma della legge elettorale, che sembrava dovesse viaggiare spedita come un Frecciarossa, da ormai sei mesi è ferma in un binario morto al Senato. Il testo approvato alla Camera prevede sbarramenti altissimi sia per i partiti (4,5% in coalizione, 8% se vanno da soli) sia per le coalizioni (12%): se rimarranno così, diversi milioni di italiani resteranno senza rappresentanza parlamentare. Prevede poi un premio di maggioranza che col 37% dei voti garantisce il 55% dei seggi alla coalizione vincitrice; e al primo partito della coalizione può addirittura bastare il 25-30% dei consensi per prendersi tutto: maggioranza assoluta, seggi sufficienti per eleggere il Capo dello Stato e i giudici Costituzionali. Inoltre, l’Italicum conferma le liste bloccate del Porcellum (anche se più corte), con le candidature decise nelle segreterie dei partiti e la prospettiva di un altro Parlamento di nominati. Alla Camera come al Senato, come nelle Province. Ma le critiche piovute da più parti a una legge che rischia di portarci diritti in Sud America, sembrano aver convinto Renzi a correggere il “Patto del Nazzareno” con Berlusconi, almeno sugli sbarramenti (abbassando le percentuali) e sulle liste bloccate (reintroducendo le preferenze). Vedremo come andrà a finire.

Il Senato delle Regioni e dei consiglieri regionali indagati.
Passata la fretta sull’Italiucum, la madre di tutte le riforme renziane è diventata quella del Senato. Il testo approvato prevede la trasformazione della “Camera alta” nel “Senato delle Autonomie”: non più elettivo, composto da 100 membri senza indennità di carica nominati dalla politica nelle varie Regioni: 21 sindaci, 74 consiglieri regionali, 5 personalità scelte dal Presidente della Repubblica. “Da istituzione antica e prestigiosa a dopolavoro dei sindaci e dei consiglieri regionali”, hanno osservato i più critici. L’auspicabile e condiviso superamento del bicameralismo che sfocia nella costituzione di una Istituzione di serie B, macchiata in partenza dalle inchieste per le “spese pazze” che coinvolgono ben 17 Regioni su 20 e vedono oltre 500 consiglieri regionali indagati. Il fatto che parecchi di loro possano ora essere promossi senatori, per di più con l’immunità, fa venire i brividi.


Il Jobs Act dei diritti mancati. 
Il Jobs Act è invece la riforma che doveva rivoluzionare in quattro e quattr’otto il mercato del lavoro mettendo in campo il contratto unico a tutele crescenti per porre fine alla selva di contratti precari oggi esistenti. Ma per ora è arrivato soltanto un decreto (il “decreto Poletti) che aggiunge altra flessibilità e maggiore precarietà per i nostri giovani, che sono per oltre il 40% senza lavoro e per la metà del restante 60%, precari. La riforma è invece ferma in Parlamento, mentre si torna a parlare di abolizione dell’articolo 18 sui licenziamenti senza giusta causa. La morale è che – ad di là degli slogan – si profila un altro arretramento sui diritti nell’illusoria convinzione che diventando un po’ più cinesi ci sarà più lavoro, e che dando per legge più libertà di licenziamento alle imprese ci sarà più occupazione. Anche in questo caso, comunque, la fretta sembra passata. Col “passo dopo passo”, l’obiettivo è diventato l’approvazione in Parlamento entro l’anno della legge delega al governo, per arrivare prima della prossima estate ai decreti attuativi di una riforma del lavoro ispirata, si dice, al “modello tedesco”, ovvero al coinvolgimento pieno del sindacato e dei lavoratori nelle gestioni aziendali.

Il raffronto impossibile con le grandi riforme del passato.
Alla fine della fiera delle grandi riforma annunciate da Renzi in sede di insediamento del governo, finora c’è ben poco. E se soltanto si prova a fare un parallelo con le grandi riforme degli anni Settanta del secolo scorso, quelle di oggi impallidiscono. Tanto per citarne alcune: nel 1970, venivano approvati dal Parlamento lo Statuto dei lavoratori, l’istituzione delle Regioni e la legge sul divorzio; e nel 1978 la riforma sanitaria con la scomparsa delle mutue e la nascita del Servizio sanitario nazionale, la legge che ha depenalizzato l’aborto liberando le donne dalla barbara pratica degli aborti clandestini, la “riforma Basaglia” sulla chiusura dei manicomi. Riforme che portavano il segno delle battaglie per l’estensione dei diritti civili. Riforme che oggi, tutt’al più, portano il segno della sconfitta della politica.

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