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mercoledì 15 agosto 2018

I viadotti che crollano e le strade degradate specchio dell'Italia che affonda



Quel che è accaduto a Genova alla vigilia di Ferragosto è allucinante. Il crollo improvviso della campata del viadotto "Morandi" sull'autostradaA10, che ha trascinato con sé una quarantina di mezzi provocando decine di morti e feriti, è un fatto inaccettabile per un paese civile. Tanto più per una struttura che, stando al comunicato della società Autostrade, "era sottoposta a costante attività di osservazione e vigilanza e a continui lavori di consolidamento". Un collasso, peraltro, che è soltanto l'ultimo e più tragico "incidente" di una lunga serie. Tra i più recenti e clamorosi crolli si ricordano quelli di due cavalcavia su altrettanti strade statali in Sicilia, nel 2014, di cui uno inaugurato due giorni prima; il cedimento di un cavalcavia sulla superstrada Milano-Lecco al passaggio di un Tir, con un morto, e quello sull'A14 a Camerano di Ancona, con due vittime, tra il 2016 e il 2017. Senza contare la tragedia sfiorata pochi giorni fa a Borgo Panigale, dove parte del ponte sul raccordo autostradale è precipitato sulla via Emilia, "sciolto" dal calore della tremenda esplosione di un'autocisterna carica di Gpl che solo per miracolo non ha provocato una carneficina.

A questo si deve aggiungere lo stato comatoso di una infinità di strade e superstrade statali (si pensi all'eterna incompiuta E45 tra Cesena e Perugia e a diverse altre "sorelle" a 4 corsie, da Nord a Sud dell'Italia), il degrado delle strade provinciali - un tempo fiore all'occhiello della pubblica amministrazione - e di quelle comunali, sempre più piene di buche che nessuno ripara perché mancano le risorse e con l'erba sempre più alta ai lati perché si dimezzano gli appalti ai privati per tagliarla.

Se la situazione delle strade è delle autostrade d'Italia è lo specchio dell'Italia, non c'è da stare allegri. Perché quello che si vede è un Paese che non sa più avere cura dei suoi beni e del suo territorio, non sa programmare e prevenire utilizzando le tecnologie oggi a disposizione, ma solo saltare da emergenza in emergenza. E che sempre di più affida la manutenzione delle proprie infrastrutture fondamentali, in appalto o concessione, a privati e società che hanno a cuore principalmente la massimalizzazione dei profitti più che la sicurezza. In questo contesto le nostre autostrade, che dovrebbero rendere più veloce, moderna e competitiva l'Italia, sono diventate la gallina dalle uova d'oro delle società concessionarie. La nostra rete autostradale si snoda per 6.700 chilometri e per l'87% è affidata in concessione ai privati. I concessionari sono 26, di cui due - Autostrade per l'Italia Spa del gruppo Benetton e Sias del gruppo Gavio - gestiscono circa il 70% dell'intera rete. Negli ultimi vent'anni la rete è rimasta più o meno la stessa ma i loro ricavi sono più che raddoppiati, passando da 2,5 miliardi di euro nel 1993 a oltre 6,5 miliardi nel 2012.

Tra il 2008 e il 2016 i pedaggi sono aumentati di circa il 25%, a fronte di un crescita dell'inflazione nello stesso periodo inferiore al 10%. Secondo uno studio della Banca d'Italia, ogni chilometro di autostrada a pedaggio rende mediamente ai concessionari oltre 1,1 milioni di euro l'anno. Di questi, 300 mila euro vanno allo Stato e 850 mila alle società di gestione. Il contratto di concessione con Autostrade per l'Italia è stato stipulato nel 2007 ed è valido fino al 2038. Dal 2008 al 2015 la società ha incassato ai caselli 27,3 miliardi di euro, realizzando 6,3 miliardi di utile netto contro i 3,5 miliardi previsti dal piano finanziario della convenzione. Stesso discorso per il gruppo Sias, con aumenti percentuali record della redditività.

Di converso, gli investimenti per le manutenzioni, l'ammodernamento e le nuove opere sono diminuiti nello stesso periodo del 40%. Sia perché dal 2008, complice la crisi economica e finanziaria dell'Italia, si è progressivamente ampliato il divario tra gli investimenti programmati e quelli effettivamente realizzati, sia perché le convenzioni prevedono che i concessionari debbano reinvestire fino al 75% degli introiti solo se il traffico sulle autostrade che gestiscono aumenta più del previsto rispetto ai piani di sviluppo. Così molti degli investimenti previsti sono rimasti sulla carta e il surplus dei pedaggi è finito quasi tutto nelle tasche degli azionisti delle società, lasciandoci una rete autostradale più obsoleta e meno sicura.

Nonostante questo, le autostrade sono ancora il meglio della nostra rete viaria. Superstrade e strade statali, in particolare, sono strutturalmente inadeguate (le superstrade dell'Anas sono quasi tutte senza corsia di emergenza), con fondi stradali sconnessi (la produzione di asfalto è diminuita del 40% negli ultimi anni) e segnaletica approssimativa. Sui ben 5.300 di strade provinciali - dopo che le province sono state prima trasformate in enti di secondo grado dalla Riforma Delrio, poi svuotate di risorse dagli ultimi governi, infine resuscitate dal referendum senza però restituzione del portafoglio - la manutenzione è stata drasticamente ridotta. In compenso, con la scusa della sicurezza, si moltiplica l'installazione di autovelox da parte dei Comuni, che si comportano esattamente come i concessionari delle autostrade: dovrebbero reinvestire i proventi delle multe per rendere più sicure le strade a cominciare dalla chiusura delle buche, invece li utilizzano per fare cassa e chiudere i buchi di bilancio. Bella Italia.

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