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lunedì 29 gennaio 2018

Lo spettacolo deprimente delle liste e della politica di oggi

Uno schifo così nella politica italiana non lo si era mai visto. Il 4 marzo voteremo con una legge elettorale, il Rosatellum, che è un insulto alla vergogna, frutto avvelenato di una politica mai così lontana dai cittadini e di una classe dirigente mai così mediocre. Voteremo sapendo che al 99% queste elezioni non potranno dare ai vincitori una maggioranza sufficiente a formare un governo, che quindi con ogni probabilità le alleanze di oggi il 5 marzo non varranno più un soldo bucato, che nella migliore (o peggiore) delle ipotesi gli avversari di oggi si accorderanno per tenersi il governo Gentiloni domani e/o per dare vita a una grande coalizione all'italiana (Renzi con Berlusconi, o i Cinquestelle con Salvini) e nella peggiore (o migliore) si formerà un governo istituzionale (o "del presidente" come dice D'Alema) per adempiere agli inderogabili impegni europei, socio-economici e di bilancio, riformare la legge elettorale e tornare a votare subito dopo. Se si pensa che solo due anni fa, prima che venisse bocciato dalla Corte costituzionale, c'era l'Italicum che un minuto dopo lo scrutinio avrebbe dovuto dirci chi governava perché chi vinceva si prendeva tutto, e che solo pochi mesi fa è stato affossato a un passo dal traguardo l'accordo tra Pd, M5S, Forza Italia e Lega sul modello elettorale proporzionale alla tedesca che avrebbe almeno assicurato un minimo di potere di scelta agli elettori e di reale rappresentanza politica al Paese, viene veramente il mal di testa. E ci si chiede: ma che succede a questo Paese? Com'è messo chi lo dirige? Cosa sono diventati i partiti? 

Le liste dei candidati sono lo specchio indigeribile di questa situazione: un gioco del risiko disegnato a tavolino da quattro o cinque capi partito per assicurarsi il proprio potere e futuro politico attraverso il controllo delle Camere con l'elezione di truppe di fedelissimi; un esercito di aspiranti deputati e senatori spesso slegati dai territori che prefigura un Parlamento di nominati in un mondo (quello della politica) sempre più virtuale e sempre più sconnesso dalla vita reale della gente e del Paese; alleanze formate non sulla convergenza delle idee e dei programmi ma solo sulle convenienze elettorali di partiti sempre più personali e dell'uomo solo al comando, dove non si distingue più la destra dalla sinistra e dal centro. In puro stile supermarket, nelle cabine elettorali chi andrà a votare sarà costretto a prendere il "due per uno": se vota il candidato che più gli piace si prende anche la coalizione che lo sostiene, se vota per il partito che sente più suo o il meno peggio, vota anche il candidato che semmai è di un altro partito e non gli piace per niente.

Così, tanto per fare un esempio, chi a Bologna o Modena voterà Pd credendolo, nonostante tutto, l'erede della tradizione di sinistra si prenderà anche Casini e la Lorenzin. Mentre l'elettore moderato o conservatore che ha sempre votato centrodestra ma non è populista, xenofobo o fascista, votando il suo candidato o partito di centro finirà per votare anche gli xenofobi della Lega e i fascisti della Meloni e Casapound; oppure potrà passare direttamente al Pd geneticamente modificato di Renzi, ripulito di quel po' di rosso e di sinistra che c'era ancora con l'eliminazione dalle liste di persone come Manconi, Lo Giudice, Cuperlo a vantaggio di verdiniani, alfaniani e berlusconiani. Il prototipo di questo quadro politico impazzito è il candidato Giacomo Mancini junior, nipote dell'ex ministro socialista Giacomo senior, renziano di fede berlusconiana, candidato dal Pd nel difficile collegio di Cosenza, che se non verrà eletto in Parlamento farà il tifo per il consigliere regionale meloniano Fausto Orsomarso, candidato da Fratelli d'Italia in un collegio blindato del Nord, che una volta eletto libererà il suo posto all'Assemblea regionale della Calabria proprio a vantaggio di Mancini, primo dei non eletti con Forza Italia. Le contraddizioni e l'incoerenza dei leader politici, sommati alla rincorsa dei candidati più quotati al collegio sicuro (che poi lo sarà davvero?) e alla blindatura dei nominati, ha fatto il resto. Renzi e la Boschi, che volevano cambiare la Costituzione e abolire il Senato, si candidano al Senato: la madrina della riforma nella blindatissima Bolzano dove perfino alla Sudtiroler Volkspartei è venuto il mal di pancia ricordando che a Maria Elena nel 2014 alla Leopolda scappò detto che lei era per l'abolizione delle Regioni a statuto speciale, anche se l'interessata ora smentisce. 

Non sfuggono a questa micidiale logica neppure i Cinquestelle e la sinistra di Liberi e Uguali. I primi, che si vantano di essere i soli ad aver scelto i candidati coinvolgendo i loro elettori con le parlamentarie online della piattaforma Russeau, omettono di dire quanti sono stati i votanti (nel 2017 per la scelta del candidato premier furono appena 37mila), quanti voti hanno preso i singoli candidati (alle precedenti politiche a molti bastarono i voti dei famigliari stretti per diventare parlamentari) e alla fine correggono i risultati cambiando almeno 14 vincitori con altri candidati ritenuti più idonei in diverse regioni. I secondi, che pure sostengono di aver candidato il 70% dei capilista e l'80% dei candidati come "espressione dei territori" e di non aver ricandidato la metà dei parlamentari uscenti, finiscono anch'essi nel vortice delle polemiche per i paracadutati dal centro alla periferia e per la rinuncia di Pietro Bartolo, il medico dei soccorsi ai migranti a Lampedusa protagonista del film di Rosi "Fuocammare", proposto al Nord invece che nella sua Sicilia. Soprattutto, nonostante gli sforzi unitari di Grasso e Bersani, LeU sembra non riuscire a togliersi di dosso la sindrome del "tafazzismo", l'immagine di una sinistra sempre divisa e "ancien régime" in un mondo che richiede invece nuove idee e alternative credibili alla pericolosa deriva che la globalizzazione e i nuovi venti di guerra stanno determinando.

In questo contesto, dove la partecipazione alla vita politica è un lontano ricordo e il potere di scelta degli elettori è ridotto al minimo, non c'è da stupirsi se nei sondaggi il primo partito è quello dell'astensione, accreditato del 40% e anche più (ricordiamo che ai ballottaggi delle amministrative dello scorso anno ha votato meno del 50%, e alle regionali del 2014 nella civilissima Emilia-Romagna appena il 37%), seguito a ruota dall'antipolitica grillina, dai populisti e dalla destra tornata nera da far paura. Mentre quello che doveva essere il partito del centrosinistra di governo, del 41% alle europee e della vocazione maggioritaria, è ridotto a sperare di non scivolare sotto il 25% della "non vittoria" di Bersani. C'è solo da sperare che l'incazzatura prevalga sul disincanto, che gli elettori non si rassegnino al ritorno di Berlusconi, Bossi, Lupi, Verdini, Razzi e compagnia cantante, e nemmeno che si accontentino dei "vaffa" di Grillo e del "replicante" Dima-Ios (come lo rappresenta Crozza); c'è da sperare che vadano a votare e che si dimostrino più avveduti dei loro capi partito, riservando qualche sonoro ceffone a chi ci ha portato in questa situazione e dando un segnale forte che c'è un'altra Italia possibile oltre l'Italietta di oggi.

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