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venerdì 5 gennaio 2018

La fretta e la rincorsa alla politica virtuale che uccidono il giornalismo

Da parecchio tempo quando ascolto un Tg, seguo un talk-show o leggo i giornali, mi sale dentro un moto di irritazione e mi chiedo: che fine ha fatto il giornalismo? Quello che racconta i fatti del mondo e di casa nostra di cui è testimone, intendo. Il giornalismo d'inchiesta e del controllo delle fonti. Il giornalismo cane da guardia della democrazia, che incalza i politici e vigila sui potenti per garantire ai cittadini il diritto alla corretta informazione e alla libertà di stampa. Il giornalismo del "quarto potere" che controlla gli altri tre: legislativo, giudiziario, esecutivo.

Invece il giornalismo di oggi va di corsa, lotta contro il tempo, combatte con internet e con i social per arrivare prima, alimenta l'informazione spot, il copia incolla delle notizie di seconda e terza mano, il racconto di ciò che non ha visto, rielaborato da abilissimi e velocissimi redattori seduti alla loro scrivania davanti ai monitor aperti sulle agenzie, i siti on line, i profili Twitter e Facebook. Non c'è bisogno di cercare i produttori e gli untori di fake news : le notizie false, o quanto meno distorte e ingannevoli, sono figlie del sistema stesso: il "sistema della fretta" che è divenuto il primo nemico della verità. L'osservazione diretta dei fatti e del potere, il controllo delle fonti, l'approfondimento e l'analisi sono ormai una zavorra insopportabile per il giornalismo di oggi.

Così sempre più spesso si assiste a cronache filmate costruite con i video girati da sconosciuti e postati sui social, senza alcun controllo. Si vedono in Tv e si leggono sui giornali servizi basati esclusivamente sui tweet e i post dei politici, che ormai sanno fare politica solamente su Facebook e Twitter, in un mondo sempre più virtuale e lontano dalla vita di tutti i giorni e dalla gente in carne e ossa. E' insopportabile vedere che il presidente della nazione più potente del mondo governa con i tweet, e che l'informazione su Trump e sugli Stati Uniti viene fatta sui suoi tweet. Così come non si possono più vedere i servizi sulla politica italiana con il giornalista televisivo che mette il microfono davanti alla bocca del politico, che recita tutto d'un fiato il sermoncino da 15 secondi che si è preparato e che ha concordato col giornalista, senza contraddittorio, senza nemmeno una domanda.

E che dire dei fatti del mondo? Le recenti manifestazioni di piazza e i disordini di Teheran ci sono stati raccontati dall'inviata Rai, Lucia Goracci, che è bravissima ma stava a Istambul. L'escalation nucleare della Corea del Nord ci viene raccontata dai corrispondenti a New York, o quando va bene da Pechino. Naturalmente con le notizie spesso rigidamente "orientate" delle agenzie internazionali e con quelle che altri media, se non altro per questioni di fuso orario, hanno già dato. Mentre nulla si sa e ci viene raccontato, ad esempio, di cosa succede davvero nei paesi asiatici dove l'America di Bush "ha esportato la democrazia", o dei conflitti alimentati dal neo-colonialismo delle grandi potenze in Africa, o sugli effetti che le multinazionali e la grande finanza stanno determinando sull'instabilità di un mondo che ha ricominciato a correre verso la guerra.

Sarà pur vero che l'editoria, e in particolare quella italiana, sta attraversando la peggior crisi di sempre, che i lettori dei giornali di carta sono passati dai sei milioni del secolo scorso ai meno tre milioni di oggi, che quasi nessuna testata si può più permettere di avere corrispondenti e inviati per il mondo. Ma la Rai sì, perdindirindina; dalla Rai - Servizio pubblico possiamo e dobbiamo pretendere un'informazione di prima mano. Con giornalisti sul posto, testimoni dei fatti del mondo e capaci di incalzare gli interlocutori, non solo di reggere il microfono. E dai giornali di carta, dai loro editori, dobbiamo e possiamo pretendere che tornino a raccontare i fatti, quello che vedono, ciò che scoprono, il Paese vero e non solo quello che appare dalla lucina blu del computer sempre acceso.

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