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giovedì 17 marzo 2016

Flessibilità e ricongiunzioni onerose, le ingiustizie pensionistiche che la politica non sa o non vuole sanare


Il 2016 dovrebbe essere l’anno della flessibilità in uscita, ovvero della possibilità per i lavoratori di andare in pensione anticipata (a 62-63 anni, non a 50, e dopo almeno 35 anni di lavoro) con penalizzazioni sull’assegno: 2% per ogni anno di anticipo rispetto all’età pensionabile secondo il disegno di legge Damiano; 3% secondo la proposta del presidente dell’Inps, Boeri. Sarebbe una boccata di ossigeno per i milioni di vittime delle riforme Sacconi-Fornero che hanno alzato l’età pensionabile a 66 anni e 7 mesi (dal 1 gennaio 2016 per i dipendenti pubblici, per tutti dal 2018), una luce in fondo al tunnel per i 5-600mila “sessantini” che hanno perso il lavoro, sono troppo vecchi per ritrovarlo e troppo giovani per andare in pensione, nonché l’uscita dall’apnea per i lavoratori precoci che hanno cominciato giovanissimi, dovrebbero lavorare 45-50 anni per arrivare all’età pensionabile e confidano nella "soluzione quota 41" (proposta sempre da Damiano) per poter andare in pensione con 41 anni di contributi a prescindere dall'età.

Le promesse non mantenute del governo Renzi
Il ministro del Lavoro, Poletti, aveva promesso la “riforma della riforma” già per il 2015, ma poi il premier Renzi ha scelto di dirottare le risorse disponibili sui bonus (18enni, cultura, casa), che con le elezioni alle porte sono molto più redditizi nella produzione del consenso, rinviando alla prossima legge di stabilità l’intervento sulla flessibilità pensionistica. Ma con l’economia che ristagna, la voragine del debito che si allarga e la Ue che ci tiene sotto tiro, la correzione della Fornero già nei primi mesi di quest’anno appare un miraggio sempre più lontano. Esattamente come la revisione della norma sulle “ricongiunzioni onerose” che costringe i lavoratori che avrebbero maturato gli anni di lavoro e l’età sufficienti per andare in pensione anticipata ma hanno i contributi versati in diverse gestioni previdenziali, a ricongiungerli in un’unica gestione riscattando quelli meno favorevoli a carissimo prezzo, come se in quegli anni non avessero lavorato, come si fa per il riscatto degli anni di università e della laurea.

L’ultima trovata: far pagare due volte i contributi ai lavoratori
Una legge che è una vera e propria “estorsione di Stato”. Fu partorita nel 2010 dal governo Berlusconi (con Sacconi ministro del lavoro) per impedire la fuga verso la pensione delle donne del pubblico impiego ma subito è diventata norma "erga omnes", valida per tutte le categorie di pensionandi. Una ingiustizia clamorosa che tutti oggi riconoscono, a cominciare da Poletti, che si era impegnato a trovare una soluzione, e dal grande esperto di pensioni del centrodestra, Giuliano Cazzola, che sottoscrisse l’ordine del giorno per correggerla presentato già nel 2011 dalla parlamentare del Pd Marialuisa Gnecchi e approvato poi all’unanimità. Ma da allora nulla è cambiato. Alla Camera giacciono due disegni di legge per cancellare quella vergogna e nel novembre 2014 venne approvata una mozione che impegnava il governo ad “adottare entro un anno” i provvedimenti del caso. Analoga volontà è stata espressa dal Senato nel 2015, con l’approvazione di un altro ordine del giorno. Insomma, parrebbe che tutti si fossero convinti che non è proprio normale far pagare due volte i contributi ai lavoratori per mandarli in pensione.

Quelli che ci provano e quelli che invece affossano
Ma tutte le volte che ci si avvicina alla correzione, guarda caso, scatta lo stop della Ragioneria di Stato e puntualmente il governo si ferma: “Misura di finanza pubblica, costa, non si può fare”. Il problema è stato rilanciato all’inizio di marzo da una conferenza stampa promossa da me e dalla collega Daniela Binello, con il sostegno della Fnsi, di Stampa Romana e dell'Aser e il coinvolgimento dei parlamentari Pd Marialuisa Gnecchi, Sandra Zampa e Giorgio Pagliari. L’onorevole Gnecchi aveva anche scritto un nuovo ordine del giorno pro cumulo non oneroso da presentare alla Camera in occasione dell'approvazione della legge sull'editoria, che però non è stato depositato in tempo. La stessa deputata si è però detta certa che il documento verrà presto presentato al Senato dal gruppo Pd, e ha anche annunciato che chiederà a breve all’Inps l’audizione del ministro Poletti sul tema.
 
I contributi versati? Se li sono già mangiati tutti quanti
I segnali arrivati finora sono però negativi e tutto lascia pensare che anche nel 2016 il Governo sia intenzionato a rinviare ancora l'intervento per eliminare gli oneri della riunificazione delle contribuzioni sparse in più gestioni previdenziali obbligatorie, oltre ad accantonare nuovamente la flessibilità in uscita per gli over 55 senza lavoro e senza pensione. E sapete perché? Non perché lasciare andare in pensione prima dei 66 anni e 7 mesi chi ha i requisiti, o ritornare al cumulo non oneroso dei contributi versati alle diverse gestioni, costi molto. No. Anzi: le pensioni anticipate sarebbero decurtate del 2 o 3% per ogni anno di anticipo rispetto all'età pensionabile, quindi costerebbero meno. E con il cumulo ogni gestione pagherebbe il suo pezzo di pensione, con l’assegno complessivo che sarebbe alla fine più basso di quello pagato per le pensioni ricongiunte in una unica gestione. Quindi nell'arco di pochi anni gli Enti previdenziali compenserebbero il costo, o per meglio dire il minor introito di contributi per chi va in pensione anticipata, con il minor esborso per gli anni a venire, e dopo un tot di anni il conto andrebbe pure in attivo. Allora perché non si può fare? Dove sta il problema? Sta nel fatto che con la flessibilità allo Stato verrebbero a mancare i contributi versati dai lavoratori negli anni di anticipo della pensione. E sta nel fatto che agli enti previdenziali con il cumulo verrebbe a mancare, nell’immediato, il gettito della ricongiunzione onerosa, ovvero il frutto di quella “estorsione di Stato” che fa pagare due volte i contributi diventata legge nel 2010.

Sono gli immigrati, i precari e quelli che in pensione non andranno più a pagare le nostre 
Ci si chiede: ma i contributi versati per decenni dai lavoratori che beneficerebbero della flessibilità in uscita o del cumulo non oneroso, dove sono finiti? E le montagne di soldi risparmiati dalle riforme lacrime e sangue di Dini prima e di Sacconi e Fornero poi? Non dovrebbero, gli uni e le altre, essere stati accantonati e messi a frutto per pagare le pensioni, anticipate o no che siano? Macché, pare che siano tutti finiti nella voragine del debito pubblico. E che i soldi per pagare le pensioni arrivino in buona parte dai contributi che i precari, i giovani dei contratti atipici, le partite Iva, gli autonomi, i vecchi con pochi contributi che saranno costretti a lavorare vita natural-durante, perfino i lavoratori assunti col jobs act versano regolarmente tutti i mesi con pochissime possibilità di arrivare un giorno alla pensione. Come accade con gli immigrati, che pagano centinaia di migliaia delle nostre pensioni con i contributi che versano e che a loro non frutteranno mai una pensione. In sostanza, i soldi che i poveracci versano a fondo perduto all’Europa delle banche, del rigore e dei pareggi di bilancio in costituzione, che li ricambia con i muri, il filo spinato, il voto ai populisti che vogliono ricacciarli indietro o lasciarli affogare in mezzo al mare.

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