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lunedì 29 settembre 2014

Primarie, la corsa di Bonaccini comincia con un fallimento

La marcia di Stefano Bonaccini verso la presidenza della Regione Emilia-Romagna comincia con un fallimento: quello delle primarie organizzate dal partito di cui il candidato governatore è segretario regionale. Il crollo della partecipazione è clamoroso: appena 58mila votanti. Significa che le candidature del Pd non hanno convinto nemmeno gli iscritti al partito, che pure sono ridotti ad appena 75mila dei 500mila che erano quando c’erano il Pci e l’Emilia Rossa.

Cronaca di un flop annunciato.
I confronti con il recente passato danno bene la dimensione della debacle. Alle primarie meno gettonate di sempre, quelle del 2012 per la scelta (si fa per dire) dei parlamentari da eleggere alle politiche del 2013, andarono a votare 150mila elettori democratici. Per Prodi premier nel 2010 avevano votato quasi 630mila elettori. Per Bersani premier (nel 2012) e per Renzi segretario Pd (nel 2013) i votanti erano stati attorno a 400mila. E Bonaccini nel 2009 era stato eletto segretario regionale con oltre 190mila voti, contro i 34.751 che ha preso come successore designato di Vasco Errani.

Le ragioni della debacle. 
Il flop era prevedibile (anche se non con questi numeri) ma non per questo è meno significativo. I motivi sono diversi. In generale si può dire che il Pd raccoglie ciò che ha seminato: per essere arrivato a questo appuntamento in modo confuso e pasticciato; per non aver saputo esprimere personalità, idee e programmi all’altezza delle sfide (e dei dolori) che aspettano una regione all’avanguardia come l’Emilia-Romagna; per avere infine messo in campo due candidature non sufficientemente credibili e capaci, almeno sulla carta, di non far rimpiangere il governatore uscente.

Chi ha bruciato Daniele Manca?
Prima l’ipotesi di un “briscolone” nazionale (Graziano Delrio e poi a seguire il “briscolino” Giuliano Poletti) che avrebbe reso superflue le primarie. Poi la ricerca di un’intesa di vertice tra la nuova maggioranza renziana (ora dilagante anche in Emilia-Romagna ma senza leader con il “quid”) e la “ditta” bersaniana (minoranza radicata e ancora capace di esprimere la leadership in questa regione), sfociata nella candidatura del sindaco di Imola, Daniele Manca (renziano ma sostenuto da Errani e anche dal sindaco di Bologna, Virginio Merola) che sulla carta poteva rappresentare il nome giusto per andare oltre la guerra tra ex comunisti ed ex democristiani-margheritini; ma la candidatura di Manca è stata volutamente lasciata da qualcuno (dallo stesso Bonaccini? Da Renzi?) per troppo tempo a rosolare sulla graticola, fino a farla bruciare.

Le divisioni tra i renziani e la mediazione su Bonaccini. 
E’ seguita l’alluvione di candidati “rottamatori” della prima, seconda e ultima ora, che rischiavano però di essere indigesti al tradizionale elettorato “rosso” emiliano-romagnolo e di spaccare per la prima volta, e in una regione simbolo, il nuovo monolite renziano. Da Roma si è virato allora su Bonaccini, che pur essendo anch’egli passato armi e bagagli da Bersani a Renzi ha mantenuto con la “ditta” rapporti discreti. Una scelta di compromesso per evitare ai renziani di dividersi e che deve essere sembrata ai bersanian-dalemiani e allo stesso Errani il male minore.

“Bonaccini è la candidatura che può unire tutto il partito”, è stato detto da diversi esponenti del Pd (in primis il segretario di Bologna, Raffaele Donini). Dichiarazioni quanto mai incaute, che hanno finito per trasformare il già diffuso malcontento della base per quella “seconda scelta” in irritazione e disincanto verso gli accordi di vertice che depotenziano le primarie e la voglia di contare degli elettori democratici.

Il candidato "al 50%" e la lotta tra "fratelli coltelli". 
Anche perché, nel frattempo, Bonaccini invece di scendere decisamente in campo e fare il leader, ha continuato a prendere tempo (“sono candidato al 50%”, diceva), come se temesse la competizione con il “fratello coltello" modenese Matteo Richetti e aspettasse che il “capo” glielo togliesse di torno per “vincere facile”. Richetti, com’è noto, da qualche tempo non è più nelle grazie di Renzi. E stato scavalcato in Parlamento e al governo dai fiorentini del “giglio magico” e nel partito dallo stesso Bonaccini. Un’onta per il “JFK di Fiorano”, che avrebbe fatto carte false per prendersi la rivincita su Bonaccini e diventare governatore dell’Emilia-Romagna.

Due candidati indagati per le "spese facili".
A far ritirare Richetti ci ha invece pensato la magistratura, che l’ha indagato per peculato nell’ambito dell’inchiesta sulle “spese facili” dei gruppi consiliari della Regione. Anche se lui ha tentato di accreditare la tesi che si sacrificava “per l’unità del partito”, come gli avrebbe chiesto Renzi. Rinunciando, ha però costretto Bonaccini ad uscire allo scoperto. Così si è saputo (come era facile immaginare, e da tempo) che pure Bonaccini era indagato. E candidare a presidente della Regione un indagato quando Errani si è dimesso da governatore proprio per evitare “macchie” all’istituzione per la vicenda giudiziaria che lo coinvolge nell’inchiesta su Terremerse (accusato di falso ideologico, assolto in primo grado, condannato in appello) è stato l’ultimo autogol: il colpo decisivo alla partecipazione. 

E l'insolito assist della magistratura.
Non è bastato per rianimare l’umore e vincere lo scetticismo dei democratici, che la Procura, peraltro in modo del tutto inusuale e solo per quel candidato, tre giorni prima delle primarie abbia fatto sapere di aver chiesto l’archiviazione per Bonaccini. Ma probabilmente l’assist dei magistrati gli è servito per vincere la sfida con l’unico concorrente superstite: Roberto Balzani, già sindaco di Forlì, rottamatore ante litteram, che pur essendo di cultura e tradizione repubblicana, quindi estraneo al corpaccione “cattocomunista” del Pd, è riuscito a portarsi a casa quasi il 40% delle preferenze. Un altro motivo di riflessione per il Pd, che dovrebbe essere il partito della sinistra ed è invece già stato scalato e conquistato dai neo-democristiani.

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