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martedì 27 maggio 2014

Elezioni: ditemi perché non sono felice


Dovrei essere felice. Sono una persona di sinistra e la sinistra ha finalmente vinto, anzi stravinto, nel mio Paese. E al trionfo del Pd di Renzi si è accompagnato il buon risultato della sinistra radicale di Tsipras. Mentre, nei campi avversari, la destra è scesa al minimo storico, Berlusconi sembra ormai fuori gioco e l’inquietante coppia populista Grillo-Casaleggio è costretta a prendere il Maalox per digerire la pesante sconfitta elettorale.

E invece non lo sono. Intendiamoci: sono contento che il Caimano per una volta sia stato battuto nettamente anche nelle urne, e che il dittatorello di Genova abbia clamorosamente perso la sfida che aveva lanciato a Napolitano e Renzi (“o noi o loro”); mi consola, inoltre, che il partito del premier che vuole “cambiare verso” all’Italia e all’Europa, tagliare i privilegi della politica e della casta, ridurre i mega-stipendi dei manager pubblici e mettere più soldi in tasca a chi ne ha pochissimi, esca rafforzato dal voto mentre nel governo i suoi alleati di centro quasi scompaiono e quelli di destra arrancano.

Ma non riesco a gioire per quel Pd pigliatutto che – secondo gli esperti – “ruba” due milioni e mezzo di voti al centrodestra mangiandosi in un sol boccone Monti e Casini e attraendo una bella fetta di elettori di Berlusconi, ridimensionando così il già incerto “quid” di Alfano; e che si riprende pure una quota importante di “voti di ritorno” dai delusi da Grillo, compensata però da altri consensi in uscita dal Pd verso la sinistra-sinistra.

Sarà perché, da elettore di sinistra, sono molto abituato alle sconfitte e quasi niente alle vittorie. Sarà perché quel 40% evoca la Dc dei tempi d’oro, quella Balena Bianca così forte, tranquilla e rassicurante che prendeva voti a destra e manca con le clientele e senza scontentare mai nessuno, salvo ipotecare il futuro del Paese; o perché ricorda la parabola di Blair in Inghilterra – e in questo caso il parallelo è sicuramente più appropriato – che trasformò il Labour in crisi in un partito sostanzialmente liberaldemocratico e proprio in virtù di quella mutazione genetica vinse per tre volte di seguito le politiche.

Oppure sarà perché a me Matteo Renzi, nonostante l’indiscutibile trionfo personale e politico che ha ottenuto, continua a non convincere, a non ispirare fiducia. Forse per via della iniziale “rottamazione”, che nei toni e nella sostanza assomigliava molto ai “vaffa” e ai “devono andare tutti a casa” di Grillo. O forse è per via di quella caricatura che egli stesso si diede – e che ancora oggi lo fa spesso assomigliare al Renzi di Crozza – quando perse le primarie contro Bersani: “Non sono riuscito a scrollarmi di dosso l’immagine del ragazzetto ambizioso”, disse allora.

Ecco: il politico di professione che vuole pensionare i politici; il giovane rampante che passa da un incarico all'altro (spesso sommandoli) alla velocità della luce; l’aspirante premier che fa le scarpe prima al premier designato poi a quello in carica; il passdaran delle primarie e della legittimazione popolare sempre, “ma anche no” se fa comodo. Probabilmente sono questi i motivi della diffidenza. Ma fin qui è soprattutto una questione “di pelle”, poco importante. Anche perché alcuni di quei tratti del suo carattere Renzi si sta sforzando di migliorarli, e si vede.

A condizionare di più il giudizio sono i contenuti della sua politica. La proposta di una riforma elettorale che toglie la rappresentanza parlamentare alle minoranze e rischia di consegnare al partito vincitore, col 25-30% dei voti, un potere pressoché assoluto nel governo e nelle istituzioni del Paese. La trasformazione di una istituzione antica e prestigiosa come il Senato in una sorta di dopolavoro per consiglieri regionali e sindaci. Il nuovo Parlamento che si vorrebbe composto esclusivamente da nominati e non da eletti. La flessibilità e precarietà del lavoro, che in questi anni ha tolto il futuro ai nostri giovani e tagliato i diritti a milioni di lavoratori, agevolata per decreto legge. I regali miliardari fatti alle banche e quelli promessi agli Usa per gli F35.

Ecco, questi sono i punti su cui il segretario-premier, forte del larghissimo consenso che il “suo” Pd ha ricevuto, dovrebbe ora dimostrare che non sta mutando la cultura e il dna del principale partito della sinistra italiana; che non vuole fare come Blair in Inghilterra, e tanto meno fare il Nuovo Partito Democristiano. E che lui, Renzi, “dentro” non è un altro Berlusconi, più giovane e un po’ meno destro: “dentro” Matteo è proprio di sinistra, anche se di una sinistra finalmente rinnovata, moderna, che vuole vincere senza venire però meno ai suoi principi. Se lo farà, sarò felice di ricredermi su di lui. E potrò festeggiare anch’io.

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