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mercoledì 9 aprile 2014

Sinistra e destra nelle riforme renziane

Gli 80 euro al mese di sgravi fiscali in busta paga per i lavoratori dipendenti che guadagnano fino a 1.500 euro, il tetto di 238mila euro (che è lo stipendio annuo del Capo dello Stato) alle retribuzioni di manager e dirigenti pubblici, la tassazione per un miliardo di euro delle plusvalenze delle banche (a cui, peraltro, il governo aveva appena regalato 7 miliardi con il contestato decreto sulla rivalutazione delle loro quote in Bankitalia) danno, finalmente, un tratto “di sinistra” al governo Renzi. E “di sinistra” si può considerare anche il crono programma a tappe forzate imposto dal premier all’azione del governo e alle riforme per provare a portare, finalmente, l’Italia fuori dalla palude e dall’immobilismo in cui l’ha relegata la “vecchia politica”. Avesse mantenuto le promesse sul “Job Acts” mettendo in campo il “contratto unico a tutele crescenti” invece di un decreto sui contratti a termine e sull’apprendistato che sembra condannare ancor più al precariato a vita i nostri giovani, e avesse pure avuto il coraggio di tagliare gli F35, quasi quasi mi sarei ricreduto sulla sua effettiva capacità (e della sua strana coalizione) di “cambiare verso” all’Italia.

Ma quel che maggiormente continua a non convincere il popolo di sinistra (e, stando ai sondaggi, anche gran parte degli elettori del Pd) è il contenuto delle riforme, oltre che l’alleato privilegiato che Renzi si è scelto per farle passare: Berlusconi.

Dalla riforma elettorale al declassamento del Senato, dalla (finta) abolizione delle Province alla revisione del Titolo V – l’impressione è quella di trovarsi di fronte a un disegno riformatore confuso, superficiale, per certi versi preoccupante, in cui la forza degli annunci e la voglia di fare presto prevale sulla ragionevolezza istituzionale, sull’efficacia politica e perfino sulla logica democratica dei provvedimenti proposti. Col rischio che, come dice il vecchio proverbio, la gattina frettolosa faccia i gattini ciechi.

L’Italicum (che sembrava dovesse andare più veloce dei Frecciarossa e di Italo, è fermo alla stazione Senato e non si sa quando ripartirà) rimane un pasticcio indigeribile. Le alte soglie di sbarramento che rischiano di non dare rappresentanza parlamentare a milioni di elettori, il premio che può regalare la maggioranza assoluta dei seggi alla coalizione che raggiunge appena il 37% dei voti (e al partito che prende anche solo il 25-30%) e le liste bloccate, mal si conciliano con le regole di una democrazia moderna e matura.

L’auspicabile superamento del bicameralismo perfetto non si capisce cosa “c’azzecchi” con la rinuncia al Senato degli eletti (a una istituzione, cioè, che abbiamo inventato noi italiani e che è sempre stata sinonimo di saggezza ed equilibrio: l’antica “assemblea degli anziani”, la “camera alta” delle personalità nei precedenti progetti di riforma) per sostituirlo con un Senato di nominati, pieno di sindaci che hanno altro a cui pensare e di consiglieri regionali ampiamente “sputtanati”, che dovrebbe rappresentare le Autonomie ma non si capisce bene con quali poteri, dalle incerte competenze istituzionali ma che manterrebbe un ruolo legislativo sulle riforme costituzionali.

Infine, non è affatto chiaro come l’annunciata revisione del Titolo V con il sostanziale ritorno al centralismo di Stato a discapito del federalismo e delle Regioni, lo svuotamento delle Province senza provvedere a una razionale riorganizzazione delle funzioni territoriali e di governo, e la stessa scelta del Senato senza più eletti e indennità invece, ad esempio, di ridurre drasticamente il numero dei parlamentari nelle due Camere, si sposi con la giustificata e sacrosanta battaglia per abbattere i costi della politica.

Un po’ meno di fretta e un po’ più di buon senso non guasterebbero proprio. Per evitare di trovarci, a nostra insaputa, in una repubblica presidenziale. O peggio, come ha detto ieri il saggio Bersani, “dritti in Sudamerica”.

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