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martedì 29 aprile 2014

Quella frenesia sulle riforme che produce solo pasticci

Sarà pur vero che bisogna fare in fretta: perché la vecchia politica ha dato pessima prova di sé; perché se si lascia il timone ai partiti si torna nella palude; perché a prendere tempo si rischia che l’effetto Renzi si afflosci e Grillo diventi il primo partito alle europee. Ma i risultati di questa nuova frenesia sulle riforme (elettorale, istituzionali, del lavoro) finora mi sembrano alquanto pasticciati e per nulla convincenti. L’Italicum, che secondo il linguaggio del premier sembrava dovesse viaggiare spedito come un treno e invece è fermo da settimane in un binario morto al Senato, prevede sbarramenti altissimi che rischiano di togliere la rappresentanza parlamentare a diversi milioni di italiani, un premio di maggioranza che rischia di regalare al primo partito della coalizione vincitrice la possibilità di prendersi tutto (51% dei seggi, Capo dello Stato, Corte Costituzionale) con appena il 25-30% dei voti. Inoltre, la nuova legge rinnova la sciagurata scelta del Porcellum delle liste bloccate che porterà un’altra volta ad avere una Camera di nominati e non di eletti.

Il decreto lavoro, in via di approvazione definitiva al Senato dopo la fiducia alla Camera, nonostante le modifiche apportate appare in aperta contraddizione con quanto annunciato inizialmente da Renzi e successivamente dal ministro Poletti. Era stato detto: basta con la selva di contratti precari, si farà un contratto unico di inserimento a tutele crescenti. Doveva essere la grande novità del “job acts” in arrivo come un Frecciarossa sul binario 2, visto che sul binario 1 c’era la riforma elettorale. Invece è arrivato un decreto che aggiunge altra flessibilità e maggiore precarietà per i nostri giovani, con i contratti a termine senza causale rinnovabili fino a tre anni e con l’apprendistato con meno limiti e obblighi di prima sulla formazione e sulle assunzioni. Mentre gli altri provvedimenti del “job acts” che mirano alla maggiore stabilità dei rapporti di lavoro sembrano destinati a rimanere in “stand by” per un altro anno almeno. In sostanza un altro arretramento sui diritti nell’illusoria convinzione che diventando un po’ più cinesi ci sarà più lavoro e che dando per legge più libertà di precariato alle imprese ci sarà più occupazione.

Sulla abolizione del Senato, infine, che fischia per aprire il semaforo del binario 3, sembra profilarsi un accordo per lasciare alle singole Regioni la decisione su come eleggere i nuovi senatori. La proposta sarebbe caldeggiata da Calderoli (ancora lui?), sostenuta come mediazione possibile da Delrio e dalla Finocchiaro e accettata a denti stretti dalla minoranza Pd, costretta a fare buon viso a cattivo gioco di fronte all’aut aut di Renzi, che dice: o va avanti la mia proposta di Senato delle Regioni non elettivo e senza indennità, oppure lascio. Resta ancora da definire come si procederà concretamente, ma pare di capire che saranno i partiti, o i consiglieri regionali, a nominare i futuri senatori. Il che, visti anche i precedenti delle inchieste sulle “spese pazze” che interessano 17 Regioni su 20, è tutto un programma. Il fatto poi che i consiglieri-senatori vengano pagati dalle Regioni invece che dallo Stato centrale, non si capisce come sostanzialmente incida sulla spesa pubblica. Ma tant’è. La cosa che più conta per Renzi, pare, è che il testo base della riforma ricalchi quello del governo presentato dal ministro Boschi. Anche se è un compromesso al ribasso, molto al ribasso, che porterebbe una istituzione nobile e autorevole come il Senato ad essere, come qualcuno ha detto, il dopolavoro dei consiglieri regionali e dei sindaci. Della serie, quando la pezza è peggio del buco. Che tristezza!



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