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martedì 25 marzo 2014

L'Europa e la sinistra che non c'è

Non sono un economista, ma cerco di tenermi informato per farmi qualche idea su come gira il mondo ai tempi della globalizzazione e della crisi, in vista delle imminente elezioni europee. Il premier Renzi ha debuttato in Europa con due slogan: l’Italia non si fa mettere dietro la lavagna dalla Merkel, vuole invece riprendersi il ruolo di leader che le spetta; con Barroso non parliamo dello zero virgola sul deficit ma delle riforme che vogliamo fare per cambiare il nostro Paese e la Ue.

A casa nostra, dopo aver annunciato dal 27 maggio prossimo l’aumento di 80 euro in busta paga per i redditi sotto i 25mila euro, sta cercando le soluzioni per coprire i 10 miliardi (7 secondo Scalfari) che servono per finanziare l’operazione. E sul tavolo si ritrova il piano di Cottarelli sulla spending review che prevede di reperire il grosso delle risorse dall’abolizione della reversibilità pensionistica, dalla cancellazione e/o riduzione delle pensioni di guerra alle vedove novantenni e degli assegni di accompagnamento alle famiglie dei disabili, oltre che da un nuovo blocco del turn-over e dei contratti nel pubblico impiego con l’obiettivo di rottamare 85mila dipendenti. Una manovra, quindi, che andrebbe a colpire ancora una volta i ceti medi e popolari del Paese. Se questa fosse la strada maestra che il governo intende seguire per “cambiare verso” all’Italia e indicare la rotta all’Europa, la “sfida” di Renzi sarebbe persa in partenza.

Ma l’alternativa qual è? Esiste un’altra via per invertire la tendenza all’impoverimento delle classe medie e popolari? E’ possibile coniugare crescita e risanamento dei conti senza colpire il welfare? C’è, in definitiva, una sinistra che abbia un’altra idea dell’economia, della politica, dell’Europa?

Una risposta positiva a tre di queste quattro domande io l’ho trovata, da altrettante diverse fonti. La prima è una indagine commissionata dall’associazione Contribuenti italiani a “Krls Network of Business Ethics”. L’indagine dice che l’Italia è prima in Europa per evasione fiscale, con un'economia sommersa del 21% del pil, pari a 340 miliardi di euro l'anno, con ben 180,9 miliardi di euro di imposte sottratte ogni anno all'Erario. E dice anche che i principali evasori sono gli industriali (32,7%) e il comparto bancario e assicurativo (32,2%), seguiti da commercianti e artigiani. Se ne deduce che la lotta all’evasione sarebbe un’alternativa vera e credibilissima per finanziare lo sviluppo senza mettere le mani in tasca ai soliti noti. Ma non mi risulta che questa sia una delle priorità di “Speedy Gonzales” Renzi.

Su “Sette”, il settimanale del Corriere della Sera, ho trovato la seconda risposta: un interessante articolo sulle teorie dell’economista francese Thomas Piketty, che non è un radicale di sinistra ma un autorevole professore dell’”Ecole d’économie de Paris” specializzato negli studi sulle disuguaglianze, che nel suo ultimo libro, “Le Capital au XXI siècle”, spiega perché tassare i ricchi e le rendite farebbe bene all’economia e anche al capitalismo. Una tesi che sta provocando molti mal di pancia tra i suoi colleghi di scuola neo-liberista, supportata però da una formidabile quantità di dati sull’evoluzione e distribuzione dei redditi che dimostrano come in tutti i Paesi più avanzati dell’Occidente a fare la differenza, oggi come ieri, non siano tanto la meritocrazia e il talento individuale e nemmeno competitività dell’economia, quanto i grandi patrimoni di famiglia. Com’era, in particolare, ai tempi di Marx e fino alla prima metà del secolo scorso. In sostanza, dice Piketty, i patrimoni negli ultimi quarant’anni sono stati più redditizi della produzione. Tanto che il divario tra le rendite accumulate e i redditi generati dal lavoro ha ripreso ad allargarsi fino a tornare ai livelli precedenti la Prima guerra mondiale. In Italia l’insieme delle rendite fondiarie e finanziarie è quasi quadruplicato dal 1970 ad oggi, e oggi la ricchezza in immobili, depositi bancari e titoli vale quasi otto volte più del reddito nazionale. Ergo, tassare le rendite e i patrimoni sarebbe molto più utile al riequilibrio del sistema e funzionale allo sviluppo economico di qualsiasi spending review. Ma la patrimoniale, com’è noto, non c’è nel governo Renzi-Alfano-Monti-Giovanardi.

La terza e ultima risposta l’ho trovata in un lungo ma interessantissimo articolo del giornalista del Washington Post, Harold Meyerson, sulla “fine della classe media”, pubblicato in Italia dal settimanale Internazionale. Meyerson spiega come, tra le due Guerre mondiali e fino agli anni Settanta, i redditi delle classi lavoratrici e della borghesia siano aumentati, proporzionalmente, molto di più dei redditi delle classi più abbienti del Paese. E questo grazie al “fordismo”, che teorizzava come il datore di lavoro dovesse pagare i dipendenti abbastanza da permettere loro di comprare i beni prodotti in serie dalle aziende. Il consumismo come motore dello sviluppo economico, dunque. Ma nel 1974, spiega Meyerson, negli Usa c’è “la svolta”. Anche lì le famiglie più ricche, i detentori dei grandi patrimoni, i nuovi padroni delle aziende”scoprono” gli effetti altamente remunerativi e sempre più spesso speculativi della Borsa. Da allora la finanza prende il sopravvento sulla produzione. E per le classe medie e popolari comincia, inesorabile, il declino. Mentre nelle aziende la produttività aumenta dell’80%, i redditi salgono soltanto dell’11%. I posti di lavoro ben retribuiti si riducono in modo sproporzionato, inversamente proporzionale allo sviluppo di quelli sottopagati. Il lavoro diventa meno sicuro, spuntano gli “esuberi”, si taglia la previdenza. Dal 2000 ad oggi, poi, a fronte di una crescita dell’economia americana del 18%, il reddito medio delle famiglie diminuisce del 12,4%. Così il ceto medio negli Usa è caduto in disgrazia. Come sta accadendo in Italia, con i soliti 10-15 anni di ritardo rispetto alla “nazione guida”. La ricetta Meyerson non la indica. Però per me è scontato che dovrebbe trovarsi nella quarta e ultima domanda: c’è da qualche parte una sinistra che abbia un’idea davvero alternativa al liberismo? Ma questa risposta non l’ho ancora trovata sui media. E nemmeno curiosando tra il Renzi e l' Hollande pensiero.

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