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domenica 24 novembre 2013

Prodi, l'Ulivo, gli errori della sinistra e il partito mai nato dei democratici: ecco perchè non voterò alle primarie del Pd

Ho deciso che l'8 dicembre non andrò a votare alle primarie per eleggere il nuovo segretario del Pd. Per me che sono cresciuto a pane, politica e Pci, diventando grande e quasi vecchio a l'Unità, è uno strappo sofferto. Perchè il cuore, nonostante tutto, batte sempre lì, a sinistra. E perché questa è la prima volta che decido di disertare le urne, sia pure quelle dei gazebo. E adesso provo a spiegarvi perché non ci andrò.

Io non sono mai stato iscritto al Pd. Lo sono stato, per quasi trent'anni, alla Fgci prima, al Pci di Berlinguer poi, quindi al Pds di Occhetto e ai Ds di D'Alema e Veltroni - lì già con qualche mal di pancia - fino al 2000.

A convincermi a non rinnovare più la tessera furono tre fatti: l'assassinio politico del primo governo Prodi e del progetto politico dell'Ulivo, con D'Alema mandante e Bertinotti killer; la chiusura delle cronache emiliano-romagnole de l'Unità col via libera del partito-editore e la solidarietà ipocrita dei dirigenti locali alle redazioni; la disastrosa gestione delle elezioni comunali a Bologna che nel 1999 portarono alla vittoria di Guazzaloca e del centrodestra nella città simbolo della sinistra.

Prodi, com'è noto, cadde dopo appena due anni dalla vittoria dell'Ulivo nel 1996, che faceva seguito alla sconfitta della "meravigliosa macchina da guerra" di Occhetto e alla clamorosa affermazione di Berlusconi, alle elezioni del 1994. A me il progetto dell'Ulivo piaceva. E mi piaceva anche Romanone Prodi con il suo faccione pacioso, la sua sobrietà ed "emilianità". Mi sembravano - l'Ulivo e Prodi - gli unici soggetti capaci di amalgamare culture e sensibilità diverse senza vanificarne l'identità; i soli in grado di aggregare le tante anime del centrosinistra e di portarle a vincere.

Inoltre, a quel progetto, nel mio piccolo, avevo contribuito con una intervista a Beniamino Andreatta per l'Unità che all'epoca fece scalpore, perché sancì pubblicamente la disponibilità dei democristiani di sinistra (Ppi) all'intesa con gli ex comunisti (Ds) attorno alla candidatura di Prodi, in chiave anti Berlusconi.    



Ma la sinistra Tafazzi affossò quel progetto. Prima con D'Alema che teorizzò il ritorno al primato dei partiti sulla società civile dimenticando che nei partiti, Ds compresi, non c'era più la classe dirigente di un tempo, quella figlia della Resistenza e della rinascita italiana, ma si erano affermati i "polli di allevamento" del vecchio Pci (così li chiamava Sergio Sabattini, braccio destro di Occhetto e segretario provinciale Pds di Bologna) e un ceto politico yuppista nato dal craxismo e dalla commistione tra politica e affari: gente che (con le dovute ma rare eccezioni) già allora lavorava per sè più che per il Paese. Poi Bertinotti completò l'opera facendo cadere Prodi in Parlamento.

La chiusura delle cronache de l'Unità mi vide, mio malgrado, coinvolto in prima persona. Nel 1998-1999 ero capo redattore di tutte le cronache emiliane: tre redazioni a Bologna, Modena e Reggio con 46 giornalisti assunti e un nutrito gruppo di collaboratori. Un super-organico frutto dell'esperienza editoriale di Mattina, il giornale di cronaca locale che si stampava in cinque edizioni (Bologna, Modena, Reggio, Parma-Piacenza e Romagna) e si vendeva "in panino" con l'Unità.

Vedere come il mio partito e il mio giornale lasciavano morire mezzo secolo di storia, una palestra di giornalismo straordinaria e lasciare a spasso una cinquantina di persone senza muovere sostanzialmente un dito, mi convinse ad allontanarmi definitivamente dai Ds. In particolare da quei vertici bolognesi ed emiliano-romagnoli (segretario provinciale Alessandro Ramazza, regionale Fabrizio Matteucci) che pochi mesi prima, in rapida successione, avevano silurato il sindaco Walter Vitali, bruciato in modo indecente la candidatura a sindaco di Mauro Zani, imposto Silvia Bartolini e consegnato la vittoria a Giorgio Guazzaloca.

Da allora non ho più ripreso la tessera del partito, anche se ho sempre continuato a votarlo. Così come ho fatto, fino alle ultime elezioni, con il Pd, anche se, più di una volta, turandomi il naso. La nascita del Partito democratico non mi ha convinto fin dall'inizio, nel 2007. Non per l'idea in sè. L'incontro e la collaborazione tra le culture laico-socialista e cattolica popolare, in particolare, è nella storia più nobile di questo Paese, a cominciare dalla lotta di Liberazione. E sul ruolo centrale di Bologna in questo contesto feci anche, a suo tempo, un reportage non male.




Ma quel progetto non nasceva dall'incontro virtuoso di idee, sensibilità politica e sentimenti popolari. Non era l'approdo del percorso esaltante ma contrastato dell'Ulivo. Nasceva, al contrario, dal disegno a tavolino dei vertici di partiti in profonda crisi. Nasceva dal notaio e dalla separazione dei beni più che dall'unione delle coscienze. Una fusione a freddo, come in tanti hanno detto.

Un partito sostanzialmente mai nato, sempre meno radicato nei territori e sempre più di opinione; sempre più sbilanciato verso il centro e sempre meno di sinistra. Una sinistra, peraltro, a corto di idee, orfana di "pensieri lunghi", succube della cultura politica dominante nell'Europa dei banchieri, ormai stabilmente avviata ad essere il "volto umano delle politiche di centrodestra" più che la forza alternativa del cambiamento.

Un partito che anche sul piano tattico e strategico ha collezionato una serie di incredibili autogol. Dalla "vocazione maggioritaria" di Veltroni con conseguente rinuncia alla politica delle alleanze che ha portato prima alla caduta del secondo governo Prodi poi alla secca sconfitta alle elezioni politiche del 2008, fino al fatidico "se vinciamo col 51% faremo finta di avere preso il 49%" di Bersani (della serie, con noi non cambierà nulla), che ha spinto una parte degli elettori di sinistra a votare Grillo o a non votare, quindi alla incredibile sconfitta del febbraio 2013. Passando per il sostegno al governo Monti per arrivare alla pagina vergognosa dei 101 franchi tiratori, ancora anonimi ma chiaramente riconducibili a D'Alema e Renzi, contro Prodi candidato presidente della Repubblica.

Quello che mi dispiace di più è che gli artefici dei disastri siano tutte persone che ho conosciuto bene, di cui ho avuto stima e che hanno incrociato da vicino la mia vita professionale. D'Alema mi assunse a l'Unità quando ne era il direttore, nel 1989: poi non ne ha più azzeccato una (!!!). Allora al giornale fondato da Gramsci ci lavoravo già da 6 anni, ma ero assunto dal Pci come metalmeccanico, a Ravenna, dove segretario della federazione era Vasco Errani.

Bersani l'ho conosciuto abbastanza bene quando era presidente della Regione Emilia-Romagna, ed Errani era il suo delfino e capo di gabinetto. L'ho sempre visto come una persona perbene e amministratore capace, così come mi pare sia stato un bravo ministro. Ma gli errori che ha fatto negli ultimi mesi della sua segreteria Pd sono imperdonabili, anche se non sono tutta farina del suo sacco.

Veltroni mi ha fatto capo redattore prima a Romagna Mattina (1995) poi alle cronache locali de l'Unità (1998). Inoltre, l'Unità con lui direttore era uno dei più bei giornali italiani. Anche se poi i conti con la sua direzione sono sprofondati e il partito si è dovuto vendere le case del popolo costruite col lavoro volontario e i sacrifici di tanti militanti per ripianare i debiti: un "delitto dell'umanità". Ma la colpa era di un'azienda che non è mai stata tale, di un editore-partito sostanzialmente incapace e irresponsabile in quel ruolo e per quel mestiere, più che del direttore del giornale.

E adesso per completare la parabola del Pd arriverà Matteo Renzi, il "nientologo" di Crozza, il vuoto di contenuti in un bel vestitino democristian-berlusconiano; l'affabulatore che farà del Pd il "non partito" contenitore acchiappavoti di tutti del centrosinistra. Quando avevo vent'anni lo slogan che andava per la maggiore a sinistra era: "Non moriremo democristiani". Ora la prospettiva è che i democristiani si prendono il partito della sinistra. E chi è che resiste a questa prospettiva? L'argine alla deriva neo-democristiana? Gianni Cuperlo, il delfino di D'Alema (ancora lui), mentre Veltroni (ancora lui) sostiene Renzi.

Cuperlo è persona perbene e dirigente preparato, un intellettuale serio, anche se parla come un prete in chiesa. Ma è l'immagine dell'ancien régime. E non basta l'effervescenza meneghina di Pippo Civati per dare corpo alle speranze di una nuova sinistra e al ricambio generazionale in chiave anti-Renzi.

Non si può avere fiducia in un partito così, in questa situazione, con queste prospettive. Partecipare alle primarie del Pd, se si è persone serie, significa poi andare a votare alle elezioni vere, per quel partito, chiunque sia il segretario. Ma il Pd, se sarà come oggi e come lo immaginano nell'immediato futuro, io non lo voterò. Tanto meno con Renzi segretario. Per questo non andrò ai gazebo l'8 dicembre. Festa della Madonna, tanto per cominciare.





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